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Come dovrebbe comportarsi il lavoratore al quale il datore di lavoro prospetti la necessità del suo licenziamento, con possibilità di rassegnare, in a

In linea generale, a meno che non vengano versate cifre consistenti, non è mai conveniente rassegnare le dimissioni, ma è preferibile essere licenziati. Infatti, nonostante le comune convinzione che il licenziamento sia più "infamante", le conseguenze tra le due ipotesi sono ben differenti. Innanzitutto sul libretto di lavoro non viene annotata la causa di cessazione del rapporto, ma solo ed esclusivamente la data di risoluzione. In secondo luogo, il licenziamento di regola determina il pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso, che varia secondo le qualifiche e l'anzianità.

Quel che più conta però è che il licenziamento può essere impugnato avanti il Giudice del lavoro, mentre le dimissioni, salvo casi eccezionali, no. Questo significa la possibilità di far verificare al Giudice che effettivamente sussistessero le ragioni che hanno portato al licenziamento (che in molti casi si rivelano, al vaglio della Magistratura, insussistenti). Nel caso in cui fosse esclusa la legittimità del licenziamento, al lavoratore spetterebbero 5 mensilità di retribuzione (nel caso di aziende di più di 15 dipendenti) oltre al diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro. In alternativa alla reintegrazione il dipendente può svolgere una particolare opzione (prevista dalla legge 108/90) in virtù della quale gli debbono essere versate altre 15 mensilità di retribuzione per la rinuncia al posto.

Cosa deve contenere la lettera di assunzione?

La lettera di assunzione è il documento che consente di individuare con certezza gli elementi essenziali che caratterizzano il rapporto di lavoro. Tale lettera, che ai sensi dell’art. 4bis comma 2 D.Lgs. n. 181/00 deve essere consegnata al lavoratore al momento dell’assunzione, deve contenere le condizioni di lavoro applicate al rapporto, di cui all’art. 1 comma 1 D.Lgs. n. 152/97, ovvero: a) l’identità delle parti; b) il luogo di lavoro; c) la data di inizio del rapporto di lavoro; d) la durata del rapporto di lavoro, precisando se si tratta di rapporto di lavoro a tempo determinato o indeterminato; e) la durata del periodo di prova se previsto; f) l’inquadramento, il livello e la qualifica attribuiti al lavoratore, oppure le caratteristiche o la descrizione sommaria del lavoro; g) l’importo iniziale della retribuzione e i relativi elementi costitutivi, con l’indicazione del periodo di pagamento; h) la durata delle ferie retribuite cui ha diritto il lavoratore o le modalità dei determinazione e di fruizione delle ferie; i) l’orario di lavoro; l) i termini di preavviso in caso di recesso.

L’informazione circa le indicazioni di cui alle lettere e), g), h), i) ed l) può essere effettuata mediante il rinvio alle norme del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro.

Qual è l'età minima per lavorare?

La regola generale posta dalla legge è che la età minima per la ammissione al lavoro, anche per gli apprendisti, è di 15 anni compiuti. Tuttavia questa regola incontra alcune eccezioni: in agricoltura e nei servizi familiari, l'età minima per l'ammissione al lavoro è di 14 anni compiuti, purché ciò sia compatibile con la tutela della salute del minore e non comporti la trasgressione dell'obbligo scolastico; nelle attività non industriali, i fanciulli di età non inferiore a 14 anni compiuti possono essere ammessi a lavori leggeri (meglio precisati nel DPR 4/1/71 n. 36), che siano compatibili con la tutela della salute, non comportino trasgressione all'obbligo scolastico e sempre che il minore non sia adibito a lavoro notturno e festivo.

E' prevista una deroga anche per la preparazione o rappresentazione di spettacoli o riprese cinematografiche. In questo caso, l'ispettorato provinciale del lavoro, su conforme parere del prefetto e previo assenso scritto del genitore o tutore, può autorizzare l'ammissione al lavoro dei minori di età inferiore ai 15 anni e fino al compimento dei 18, sempre che il lavoro non sia pericoloso e non si protragga oltre le ore 24. Il rilascio di tale autorizzazione è subordinato all'esistenza di tutte le condizioni necessarie ad assicurare la salute fisica e la moralità del minore, nonché l'osservanza dell'eventuale obbligo scolastico. In ogni caso, il fanciullo o adolescente, dopo l'impegno in tali rappresentazioni, dovrà godere di un riposo di almeno 14 ore consecutive.

La legge appronta particolari tutele a favore dei fanciulli e adolescenti che siano impiegati al lavoro. In particolare, i minori di 16 anni non possono essere adibiti ai lavori pericolosi, insalubri e faticosi, precisati dal DPR 20/1/76 n. 432 (in ogni caso, la legge stessa pone precisi limiti in ordine al sollevamento e trasporto di pesi da parte dei fanciulli e degli adolescenti); è vietato adibire i fanciulli e gli adolescenti a lavori sotterranei in miniere o cave o gallerie, nonché alla somministrazione di bevande alcooliche. L'ammissione al lavoro deve essere preceduta da una visita medica che certifichi l'idoneità del minore al lavoro cui sarà adibito. La legge prevede infine un particolare trattamento di salvaguardia in tema di ferie, orario di lavoro, lavoro notturno, riposo settimanale. La violazione delle norme della legge 977 comporta l'inflizione di sanzioni penali, peraltro modeste.

Mobbing: Cassazione, ecco come ottenere il risarcimento del danno

La Corte di Cassazione ha stilato un vademecum su quelle che debbono essere le regole per ottenere il risarcimento del danno in caso di mobbing in ufficio. Secondo la Corte, per evitare cause inutili, occorre considerare in primo luogo che per "per 'mobbing' si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione e di persecuzione psicologica, da cui puo' conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalita'". Fatta questa precisazione la Corte (sentenza 3785/2009) spiega che per avere maggiori possibilità di successo in una causa per mobbing occorre innanzitutto che vi sia una "molteplicita' dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistamatico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio".
In secondo luogo occorre sapere che per poter parlare di mobbing occorre che una determinata azione sia stata lesiva "della salute o della personalita' del dipendente". Ma non basta, la Suprema Corte sottolinea anche la necessità di acertare l'esistenza del "nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrita' psico-fisica del lavoratore". Da ultimo occorre avere la prova dell'elemento soggettivo ossia dell'intento persecutorio. E' stato così respinto il ricorso di un postino che nel fare causa alle poste per un infornunio aveva anche sostenuto di essere stato vittima di vari episodi di mobbing. La Cassazione pur avendo accertato che vi erano stati dei contrasti tra la dirigente d'ufficio e il lavoratore, tali contrasti di per sè "non sono tali da provare la sussistenza di un intento vessatorio del dirigente dell'ufficio".

La richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione è un atto idoneo a costituire in mora il datore di lavoro

La Cassazione, sez. lav. (sent. 24 settembre 2009, n. 20560) stabilisce che la sospensione dell’obbligo retributivo, negli intervalli non lavorati di contratti a termine, viene meno allorché il lavoratore, deducendo l’invalidità del termine, si offra di riprendere il lavoro mettendo a disposizione del datore la prestazione lavorativa. La comunicazione del lavoratore indirizzata alla Direzione provinciale del lavoro ma portata a conoscenza del datore nell’ambito della procedura di conciliazione obbligatoria e contenente l’espressa dichiarazione di volere riprendere l’attività lavorativa è da ritenere prova idonea di tale volontà, rilevante ai fini della decorrenza del diritto al pagamento delle retribuzioni.

Cassazione, il lavoratore può essere dequalificato se è intervenuta una causa di inidoneità sopravvenuta alle mansioni

La Sez. lav. ( sent. 19 agosto 2009, n. 18387) richiamando un autorevole precedente delle Sezioni Unite ( 7755/1998), stabilisce che l’impossibilità di svolgere la prestazione lavorativa da parte del dipendente non determina l’onere della società di mutare il proprio assetto organizzativo, così come non determina l’onere della medesima società di acquistare attrezzature o macchinari che possano favorire la prestazione lavorativa del dipendente ovviando alla sua inabilità. Peraltro l’azienda ha l’onere di verificare la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, soluzione adottabile solo in presenza di un accordo con il dipendente, che abbia manifestato la sua disponibilità alla propria dequalificazione finalizzata alla conservazione del posto di lavoro. Tale patto di dequalificazione è valido, poiché non si tratta di una deroga all’art. 2103 c.c. (norma diretta alla regolazione dello ius variandi del datore di lavoro e, come tale, inderogabile secondo l’espresso disposto del comma 2 dell’articolo) ma di un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: il lavoratore deve impugnare specificatamente i criteri di scelta ex L. 223/1991 e non solo il licenz

l Tribunale di Monza ( sent. 478/2009) aderisce all’orientamento giurisprudenziale (Cass. 16144/2001) in base al quale i criteri di scelta del lavoratore da licenziare dettati dall’art. 5 della legge n. 223/1991 ( in particolare il profilo professionale del lavoratore e le sue condizioni socio – familiari) sono analogicamente applicabili al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, purchè sussista la specifica impugnazione da parte del lavoratore del mancato rispetto dei criteri di scelta, non essendo sufficiente la sola impugnazione del licenziamento. In ogni caso, rimane fermi il principio per cui ricade sul datore di lavoro l’onere di provare anzitutto la reale sussistenza del motivo addotto per il licenziamento.

L’indennità di disoccupazione non spetta in caso di part-time verticale

La Cassazione ( sent. 19253/2009) stabilisce che ai lavoratori impiegati a tempo parziale secondo il cd. Verticale a base annua non spetta l’indennità di disoccupazione per i periodi di inattività, posto che la stipulazione di tale tipo di contratto, dipendendo dalla libera volontà del lavoratore contraente, non dà luogo a disoccupazione involontaria nei periodi di pausa, con la conseguenza che a tali lavoratori neanche può estendersi in via analogica, in mancanza di una eadem ratio, la disciplina della disoccupazione involontaria. La Corte ribadisce che vi è differenza tra un dipendente licenziato il quale non abbia, quindi prospettive di entrate economiche nei mesi successivi, ed un dipendente che lavori solo alcuni mesi dell’anno, ma abbia comunque la garanzia ( almeno dal punto di vista contrattuale) di uno stipendio anche per gli anni successivi ( pertanto non c’è violazione né dell’art. 3 Cost. né dell’art. 38 Cost. )