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Art.100 c.p.c. IMPUGNAZIONE


L'interesse all'impugnazione, manifestazione del generale principio dell'interesse ad agire - sancito, quanto alla proposizione della domanda e alla relativa contraddizione alla stessa, dall'art. 100 c.p.c. - va apprezzato in relazione all'utilità concreta derivabile alla parte dall'accoglimento del gravame, e si collega alla soccombenza, anche parziale, nel precedente giudizio, mancando la quale l'impugnazione è inammissibile. Conseguentemente deve escludersi l'interesse della parte integralmente vittoriosa a impugnare la sentenza al solo fine di ottenere una modificazione della motivazione, salvo il caso che da quest'ultima possa dedursi un'implicita statuizione contraria all'interesse della parte medesima, nel senso che a questa possa derivare pregiudizio da motivi che, quale premessa necessaria dalla decisione, siano suscettibili di formare giudicato. (Nella specie, la S.C., ribadendo l'enunziato principio, ha dichiarato inammissibile il ricorso con il quale, in relazione a un giudizio per repressione di condotta antisindacale, si censurava la decisione della Corte territoriale per avere accolto la domanda in base all'argomentazione, formulata in via subordinata nel giudizio, che la procedura di mobilità condotta a termine dalla società, ai sensi della legge n. 223 del 1991, dissimulava un trasferimento d'azienda, trattandosi di mera subordinazione logica rispetto all'altra, con cui si deduceva l'occultamento di un'illecita operazione di intermediazione di manodopera, e attesa l'assenza di una pronunzia di rigetto del diverso percorso motivazionale. (Cass. 10/11/2008 n. 26921, Pres. Sciarelli Est. Ianniello, in Lav. nella giur. 2009, 294)
La doglianza relativa alla mancata adozione di un diverso rito, dedotta come motivo di impugnazione, è inammissibile per difetto di interesse qualora non si indichi uno specifico pregiudizio processuale che dalla sua mancata adozione sia concretamente derivato, in quanto l'esattezza del rito non deve essere considerata fine a sé stessa, ma può essere invocata solo per riparare una precisa e apprezzabile lesione che, in conseguenza del rito seguito, sia stata subita sul piano pratico processuale. (Cass. 13/5/2008, n. 11093, Pres. Finocchiaro Est. Talevi, in Lav. nella giur. 2008, 1057)
Il canone costituzionale della ragionevole durata del process, coniugato con quello dell'immediatezza della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), orienta l'interpretazione dell'art. 420 bis c.p.c. nel senso, confortato anche da argomenti di interpretazione letterale, che tale disposizione trova applicazione solo nel giudizio di primo grado e non anche in quello d'appello, in sintonia con le scelte del legislatore delegato (D.Lgs. n. 40 del 2006) che, più in generale, ha limitato la possibilità di ricorso immediato per cassazione avverso sentenze non definitive rese in grado d'appello, lasciando invece inalterata la disciplina dell'impugnazione immediata delle sentenze non definitive rese in primo grado. Conseguentemente, la sentenza di accertamento pregiudiziale sull'interpretazione di un contratto collettivo, ove resa in grado d'appello, non essendo riconducibile nel paradigma dell'art. 420 bis c.p.c., non incorre in un vizio che inficia la pronuncia, bensì nel rimedio impugnatorio proprio, che non è quello del ricorso immediato per cassazione, il quale ove proposto deve essere dichiarato inammissibile, ma trattandosi di sentenza che non definisce, neppure parzialmente, il giudizio, è quello generale risultante dal combinato disposto dell'art. 360, terzo comma, e 361, primo comma, c.p.c. Pertanto non viene in rilievo l'affidamento che le parti possono avere riposto nella decisione della Corte territoriale emessa nel contesto processuale dell'art. 420 bis c.p.c., atteso che l'interesse a un giudizio di impugnazione sulla sentenza resa dal giudice di appello è salvaguardato dall'applicabilità del secondo periodo del terzo comma dell'art. 360 c.p.c., come novellato dall'art. 2 del D.Lgs. n. 40 del 2006, che prevede che avverso le sentenze che non definiscono il giudizio e non sono impugnabili con ricorso immediato per cassazione, può essere successivamente proposto il ricorso per cassazione, senza necessità di riserva, allorché sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente, il giudizio. (Cass. 7/5/2008 n. 11135, Pres. Mercurio Est. Amoroso, in Lav. nella giur. 2008, 953)
llorché sono convenute in giudizio più parti e le cause siano inscindibili o tra loro dipendenti, la notificazione al ricorrente della sentenza ad iniziativa di una sola delle parti convenute fa decorrere il termine breve per l'impugnazione anche nei confronti dell'altra parte con conseguente inammissibilità dell'appello proposto fuori termine. (Corte d'appello Milano 25/9/2002, Pres. e rel. Mannacio, in Lav. nella giur. 2003, 390)
Nel caso in cui la sentenza sia fondata su una pluralità di ragioni tra loro distinte e autonome, ciascuna logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, l’omessa specifica impugnazione di tutte tali ragioni rende inammissibile la censura su alcuna di esse, la quale non potrebbe mai condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre ragioni non impugnate, all’annullamento della decisione (Cass. 24/5/99 n. 5048, pres. Buccarelli, est. Mercurio, in D&L 1999, 921)

Livello d'inquadramento dipendente assunta in sostituzione maternità

In caso di sostituzione per maternità il livello d'inquadramento del lavoratore che va a sostituire la dipendente assente non deve essere necessariamente lo stesso, in quanto il datore di lavoro ha la facoltà di organizzare diversamente l'attività lavorativa.
Comunque per maggiore chiarezza si espone di seguito un'ampia trattazione della materia.

L'attribuzione della qualifica deve essere operata dal datore di lavoro all'atto dell'assunzione in relazione alle mansioni che il lavoratore è destinato a svolgere e deve essere rivista, nel corso del rapporto, qualora il lavoratore sia adibito a mansioni diverse e corrispondenti ad un livello di inquadramento superiore a quello originariamente attribuitogli (art. 96, disp. att. cod. civ.; art. 2103, cod. civ.).

Secondo la giurisprudenza l'inquadramento del lavoratore - sia che avvenga all'atto dell'assunzione sia che debba essere determinato a seguito del mutamento delle mansioni normalmente svolte dal lavoratore - si determina mediante un procedimento logico che si articola in tre fasi:

-accertamento dell'attività lavorativa concretamente svolta;
-esame delle categorie, qualifiche e livelli d'inquadramento previsti dal contratto collettivo applicabile al rapporto;
-determinazione della categoria e della qualifica o livello di inquadramento del lavoratore in cui sono sussumibili le mansioni concretamente svolte dal lavoratore.

Al riguardo la giurisprudenza ha affermato che:
-ai fini della determinazione dell'inquadramento del lavoratore occorre attenersi alle norme che i contratti collettivi dettano in materia, senza poterne prescindere e senza poter introdurre criteri determinativi in sostituzione o in aggiunta a quelli stabiliti dal contratto stesso a meno che quelle norme non pongano in essere irragionevoli disparità di trattamento tra lavoratori;
sono legittime le clausole degli accordi aziendali in materia di inquadramento dei lavoratori;
-gli accordi aziendali non possono essere posti sullo stesso piano dei negozi di accertamento, onde non hanno efficacia vincolante e non precludono al giudice l'indagine sulla effettiva corrispondenza tra mansioni disimpegnate e inquadramento attribuito;
la determinazione della qualifica o della posizione lavorativa in genere, spettante ad un lavoratore, non è influenzata dall'inquadramento attribuito ad altri lavoratori che svolgono mansioni analoghe (c.d. comparazione intersoggettiva) ancorchè eventuali differenze di trattamento tra lavoratori debbano pur sempre essere sorrette da una adeguata "causa giustificatrice";
-l'attribuzione di una qualifica superiore al dipendente che continui ad esercitare mansioni di ordine inferiore può costituire un trattamento di miglior favore che, di per sè, non dà automaticamente diritto al riconoscimento di eguale qualifica anche per il tempo anteriore in cui sia stata svolta la medesima attività lavorativa;
la qualifica alla quale il lavoratore ha diritto è determinata esclusivamente dalle mansioni che, di fatto, egli svolge, onde la qualifica indicata all'atto di avviamento al lavoro (anche obbligatorio) non ha valore ai fini dell'inquadramento del lavoratore (si v. al riguardo infra).
Si evidenzia, inoltre, che la giurisprudenza ha affermato che, ai fini della determinazione della qualifica, deve ritenersi irrilevante il titolo di studio posseduto dal lavoratore a meno che le parti collettive, nell'esercizio della loro autonomia negoziale, abbiano inteso conferire valore al requisito formale costituito dal possesso del titolo di studio.

In ogni caso, la previsione - da parte della contrattazione collettiva - della necessità del possesso di un titolo di studio per l'attribuzione di una determinata qualifica, non impedisce che questa debba essere riconosciuta, nel caso di esercizio di fatto delle corrispondenti mansioni, anche al lavoratore sfornito di detto titolo, salvo che si tratti di qualifica comportante mansioni (come, ad esempio, quelle del medico, dell'ingegnere, del vigilatore d'infanzia) per il cui svolgimento la legge richiede una determinata abilitazione professionale.

In applicazione della legge n. 205/1966, il possesso di un diploma di qualifica rilasciato da un Istituto professionale è valevole ai fini dell'inquadramento del lavoratore, dopo un periodo di inserimento nel lavoro da definirsi in sede di contrattazione collettiva e comunque non superiore ad un anno.

Al riguardo il Ministero del lavoro, con la circolare n. 117967/1969, ha precisato che durante tale periodo di inserimento non intercorre un rapporto di apprendistato, ma è in atto un ordinario rapporto di lavoro nel quale lo "status" di lavoratore qualificato non si riflette integralmente sul piano contrattuale se non al termine del periodo stesso (non superiore ad un anno).

Peraltro, in base all'art. 1, L. n. 1146/1967, l'attestato di qualifica conseguito dai lavoratori in base all'art. 52, comma 4, della L. n. 264/49 (nonchè quelli di cui all'art. 14, L. n. 845/78 e al D.M. 11 luglio 1986), è valido, ai fini dei rapporti contrattuali di lavoro, dopo un periodo di occupazione, da determinarsi in sede di contrattazione collettiva e che in ogni caso non potrà essere superiore ai sei mesi, in mansioni proprie della qualifica stessa.

Con riferimento a quest'ultimo attestato la legge precisa che in tale periodo di occupazione il lavoratore può essere considerato come tirocinante con diritto alla retribuzione prevista dai contratti collettivi per gli apprendisti, aspiranti al conseguimento della stessa qualifica.

VERSAMENTI VOLONTARI PER LAVORATORI IN PART-TIME


I lavoratori che hanno stipulato un contratto di lavoro a tempo parziale possono essere autorizzati alla prosecuzione volontaria in applicazione delle norme introdotte:
dall’art. 8 del D.Lgvo 16 settembre 1996, n. 564, che ha previsto la possibilità facoltà di coprire, in caso di part-time verticale o ciclico (giorni, settimane o mesi alterni), i periodi durante i quali non viene effettuata alcuna attività lavorativa;
dall’art. 3 del D.Lgvo 29 giugno 1998, n. 278 che ha esteso la facoltà anche per i casi di part-time orizzontale (tutti i giorni ad orario ridotto).
L’autorizzazione alla prosecuzione volontaria, in alternativa alla facoltà di riscatto, può essere riconosciuta solo per i periodi di contratto di lavoro a tempo parziale successivi al 31.12.1996 (Circ. 220 del 14.11.1996).

N.B.: La contribuzione volontaria ad integrazione per i periodi di attività lavorativa subordinata part-time è compatibile con contestuale contribuzione versata nella gestione separata dei lavoratori parasubordinati (Circ. 54 del 7.3.2007).

I SOGGETTI INTERESSATI

Possono chiedere l’autorizzazione ai versamenti volontari i lavoratori:
assicurati al Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti;
iscritti agli ex Fondi Speciali di Previdenza (trasporti, telefonici, elettrici, dazio e volo), sostitutivi dell’assicurazione generale obbligatoria;
dipendenti degli Enti creditizi;
iscritti al Fondo dirigenti ex INPDAI;
dipendenti del Fondo Ferrovie dello Stato s.p.a. (Circ. 29 del 23.2.2006).
N.B.:L'autorizzazione ai versamenti volontari può essere concessa sia in costanza di attività lavorativa a tempo parziale (con un requisito contributivo ridotto) sia con i normali requisiti previsti per la generalità dei lavoratori, in caso di cessazione del rapporto di lavoro.

LA DOMANDA

Può essere presentata alla sede Inps, territorialmente competente per residenza, sul modello appositamente predisposto (mod. 010/M/02/PT) direttamente dal lavoratore o tramite Ente di patronato che fornisce assistenza gratuita.

Non deve essere allegata particolare documentazione comprovante l’attività lavorativa part-time in quanto tale circostanza è, di norma, rilevabile dagli archivi dell’Istituto (Circ. 29 del 23.2.2006).

Deve essere presentata, pena la decadenza dal diritto, entro 12 mesi dalla data di scadenza ordinaria del termine per la consegna ai lavoratori della certificazione CUD riferita all’anno interessato (Circ. 29 del 23.2.2006).
Se la domanda viene presentata oltre il termine previsto i periodi riferiti al lavoro part-time (scoperti di contribuzione o ad integrazione della retribuzione) potranno essere riscattati.

N.B.: Può essere concessa l'autorizzazione ai versamenti volontari per coprire tutti i periodi, caratterizzati da lavoro a part-time, successivi al 31.12.1996 se risulta perfezionato il requisito amministrativo richiesto e se la domanda è stata presentata entro il 22.9.2006 (Msg. 17249 del 14.6.2006).

I REQUISITI

Per ottenere l’autorizzazione alla prosecuzione volontaria il richiedente deve far valere almeno un anno di contribuzione effettiva nel quinquennio antecedente la data di presentazione della domanda.
Devono essere utilizzate, per determinare il requisito contributivo le settimane utili ai fini del diritto alla pensione nel rispetto del minimale retributivo di accredito previsto dall’art. 7 della legge 11 novembre 1983, n. 638 (Circ. 29 del 23.2.2006).

N.B.: Per le domande presentate entro il 22.9.2006 il requisito contributivo deve essere verificato alla data di presentazione della domanda, a prescindere dagli anni per i quali è stata richiesta l’autorizzazione.

L'IMPORTO DEL CONTRIBUTO

Deve essere determinato sulla base della retribuzione media settimanale che si ottiene dividendo:
la retribuzione imponibile corrisposta nel periodo di attività lavorativa part-time per il quale è richiesta l'integrazione con contribuzione volontaria; escludendo, quindi, dal calcolo le eventuali retribuzioni percepite nello stesso anno per altra attività lavorativa a tempo pieno o part-time;
per le settimane utili ai fini della misura a pensione accreditate nel periodo di riferimento (Circ. 54 del 7.3.2007).
L'importo del contributo volontario dovuto si ottiene applicando alla retribuzione media settimanale l’aliquota contributiva IVS prevista nello stesso anno di riferimento per la gestione interessata.

L'AUTORIZZAZIONE AI VERSAMENTI VOLONTARI

Può essere rilasciata al lavoratore per consentire la copertura:
totale o ad integrazione dei periodi in cui vi è stata attività di lavoro a tempo parziale, il versamento deve essere effettuato in unica soluzione dei termini previsti (trimestre successivo alla notifica di accoglimento);
dei periodi successivi alla domanda per intervenuta cessazione dell’attività lavorativa, i versamenti dalla decorrenza assegnata devono essere effettuati con le modalità previste per la generalità dei lavoratori (arretrati in unica soluzione, trimestralmente entro l’ultimo giorno del trimestre solare successivo a quello cui si riferiscono i contributi.

IL VERSAMENTO

La sede Inps, esaminata la domanda, invia direttamente al lavoratore, a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, il provvedimento di accoglimento della domanda con il bollettino di c/c postale che deve essere utilizzato per effettuare il versamento.

Il versamento deve essere effettuato entro e non oltre la fine del trimestre successivo a quello di notifica dell’accoglimento.

I versamenti effettuati in ritardo devono essere annullati e rimborsati senza interessi e la copertura del periodi riferiti al lavoro part-time potrà essere effettuata solo mediante riscatto (Circ. 29 del 23.2.2006).

GLI EFFETTI DEL VERSAMENTO

I versamenti volontari consentono la copertura:
totale del periodo, per determinare sia il diritto sia la misura della pensione se effettuati da lavoratore in part-time verticale caratterizzato, in altre parole, da giorni, settimane o mesi interamente non lavorati alternati;
ad integrazione, ai soli fini della misura della pensione se eseguito da lavoratore in part-time orizzontale caratterizzato, cioè, da settimane interamente coperte da contribuzione in quanto l’attività lavorativa è ad orario ridotto (Circ. 29 del 23.2.2006).

VERSAMENTO CONTRIBUTI VOLONTARI INPS


DOMANDA

Salve, avrei un questito da porvi anche se sono giovane (36 anni) e lontano dalla pensione.
Lavoro dal 1994 (incluso servizio militare) full time come dipendente di un'azienda e da maggio 2010 sono passato a part-time orizzontale (4 ore giornaliere). Sono venuto a sapere della possibilità di effettuare i contributi volontari per fare in modo che la misura di una mia futura pensione non risulti troppo ridotta; Non ho però capito bene a quanto ammontano questi contributi da versare. Mi potreste dare un'indicazione di quanto andrei a versare volontariamente tenendo conto che percepisco uno stipendio part-time di circa 760 Euro mensili? Nel qual caso decidessi di non versare i contributi c'è forse anche il modo di riscattare i versamenti effettuati nel periodo part-time pur perdendo parte del diritto di anzianità ?


RISPOSTA


Buonasera caro lettore ,

allora per quanto riguarda la possibilità di riscattare i versamenti durante il periodo part time la risposta è positiva, si può fare. Questo è quanto stabilito con la legge n. 247/07 che ha introdotto la possibilità di poter effettuare il versamento a titolo di riscatto in n. 120 rate mensili; e,in ogni caso, i contributi da riscatto concorrono a tutti gli effetti al raggiungimento degli anni di contribuzione previsti per la pensione di vecchiaia.
Per quanto riguarda il primo quesito il calcolo da fare è molto semplice ad ottenere l'ammontare di CONTRIBUTI VOLONTARI da versare all'Inps : il costo è pari all’intera contribuzione previdenziale stabilita ogni anno calcolata sulla quota di retribuzione mancante rispetto al tempo pieno; per chi è stato autorizzato dal 1° gennaio 1996 in poi, l’aliquota applicata è del 30,87%. Ad esempio, un part-time di 4 ore giornaliere con una retribuzione di € 20.000 nel 2010, dovrà versare il 30,87% calcolato su € 10.000 (differenza rispetto al tempo pieno) quale contribuzione volontaria per il 2010. Il costo, anche se i contributi siano deducibili dal reddito ai fini della tassazione fino a 2.500 euro annui, è comunque molto alto.
Il pagamento dei contributi volontari è trimestrale, e deve essere effettuato, con i bollettini prestampati inviati dall’Inps, entro il:

30 giugno per i contributi relativi al trimestre gennaio – marzo;
30 settembre per il trimestre aprile – giugno;
31 dicembre per il trimestre luglio – settembre;
31 marzo per il trimestre ottobre – dicembre.

L’importo del contributo assegnato è vincolante. Il versamento di una somma inferiore provoca automaticamente la riduzione proporzionale del periodo assicurato. Se, invece, si versa più di quanto dovuto, l’Inps rimborsa la somma in eccedenza.
Il versamento dei contributi deve essere effettuato entro le scadenze stabilite dalla legge. I contributi pagati in ritardo non possono essere accreditati e vengono automaticamente respinti. L’assicurato, però, in alternativa alla restituzione, può chiedere che la somma sia utilizzata per coprire il trimestre successivo.
Supponiamo ad esempio che l’assicurato effettui il versamento il 2 luglio, anziché il 30 giugno (con due giorni di ritardo): in questo caso può chiedere all’Inps che il periodo sia accreditato per il trimestre aprile-giugno (anziché gennaio-marzo). Il trimestre precedente, comunque, rimane scoperto. L’Inps invia i carnet a casa degli assicurati. Se i bollettini non vengono ricevuti in tempo utile, è necessario richiederli alla propria sede prima della scadenza per il versamento, cosicché si possa versare il trimestre corrente entro il trimestre successivo a quello di ricevimento dei bollettini.

Riforma previdenziale: le novità 2010


Marzo 2010 – Chi va in pensione nel 2010 deve tenere conto delle novità introdotte dalla riforma previdenziale negli ultimi anni. Vediamo nel dettaglio come funziona attualmente il sistema di calcolo delle pensioni.

Oggi in Italia si va in pensione a 59 anni se si è lavoratori dipendenti e a 60 anni se si è lavoratori autonomi. E’ quanto previsto dal sistema di quote e scalini per la pensione di anzianità, introdotto dalla legge numero 247 del 24 dicembre 2007, con un meccanismo che è entrato in vigore dal 1� luglio 2009.

In passato non era così. La precedente riforma Maroni infatti prevedeva, a partire dal 2008, uno scalone di età da 57 a 60 anni come requisito minimo per accedere alla pensione di anzianità. Questo è stato sostituito nello stesso 2008 dall’innalzamento graduale dell’età pensionabile, attraverso un meccanismo di scalini, quote e nuovi coefficienti: i valori di trasformazione della pensione, che vengono applicati ai contributi maturati dal lavoratore, e variano in relazione all’età del lavoratore e al momento in cui si va in pensione. I coefficienti, introdotti nel 2010, hanno un’applicazione triennale e automatica.

Con la riforma previdenziale i lavoratori con 40 anni di contributi hanno a disposizione 4 finestre d’uscita e non due, come previsto dalla precedente riforma Maroni. Ciò significa che possono ritirarsi dal lavoro nei mesi di gennaio, aprile, luglio e ottobre. Per quanto riguarda la pensione di vecchiaia delle donne non ci sono novità. Possono continuare ad andare in pensione di vecchiaia a 60 anni a fronte dei 65 previsti per gli uomini.

La riforma ha previsto anche l’aumento delle pensioni minime, che riguarda lavoratori di età pari o superiore a 64 anni. Ecco gli incrementi per le pensioni più basse che prevedono un aumento annuale

- di 336 euro per i lavoratori dipendenti fino a 15 anni di contribuzione e per quelli autonomi fino a 18

- di 420 euro per i lavoratori dipendenti dai 15 ai 25 anni di contribuzione e per quelli autonomi dai 18 a 28

- 504 euro per i lavoratori dipendenti con più di 25 anni di contribuzione e per quelli autonomi con più di 28

Di seguito il nuovo sistema di scalini e quote, cioè la somma tra età anagrafica e periodo di contribuzione del lavoratore.

Nel 2010 si può andare in pensione dopo aver raggiunto quota 95. L’età minima per ritirarsi dal lavoro è 59 anni (è così dal primo luglio 2009).

Dal 2011 il lavoratore deve raggiungere quota 96. L’età minima passa a 60 anni.

Dal 2013 per ritirarsi dal mondo del lavoro occorre quota 97. Lo scalino prevede l’innalzamento dell’età minima a 61 anni.

Fino al 2008 si andava in pensione di anzianità con 58 anni di età e 35 di contributi. Ricordiamo che lo scalone Maroni prevedeva 60 anni d’età.

Per quanto riguarda i lavoratori autonomi, la scaletta si sposta di un anno. Dall’aumento dell’età pensionabile restano esclusi i lavoratori impegnati in attività usuranti, tra coloro che lavorano nelle cave e nelle miniere e quelli che sono impegnati su attività di tre turni o in sistemi con catena di montaggio.

Con l’obiettivo di chiarire ai cittadini tutte le novità della riforma è stato istituito il Contact center integrato Inps - Inail, raggiungibile attraverso il numero 803164, dal lunedì al venerdì dalle 8 alle 20 e il sabato dalle 8 alle 14.

Rimborsi spese effettuati con utilizzo di carta di credito aziendale: registrazione nel libro unico del lavoro


Un dipendente in trasferta utilizza la carta di credito aziendale per sostenere le spese di viaggio, vitto e alloggio. Si chiede di sapere se tali spese, ove i documenti fossero intestati al dipendente, devono comunque essere inserite nel libro unico anche se effettivamente non rimborsate al medesimo in quanto sostenute dall'azienda.

RISPOSTA:

In relazione al quesito posto si precisa che in materia di rimborsi spese assume particolare rilevanza l'art. 39, comma 2 del D.L. 112/2008, convertito dalla legge n. 133/2008, il quale ha istituito il LUL - libro unico del lavoro. Nel LUL, ricordiamo, devono essere registrati anche i rimborsi spese a dipendenti e collaboratori coordinati e continuativi.
Occorre evidenziare che i rimborsi spese, di qualsiasi natura, vanno riportati nel libro unico del lavoro solo quando si riferiscono a quei rapporti di lavoro per cui la norma prevede l'iscrizione nel medesimo libro, ossia lavoratori subordinati, collaborazioni coordinate e continuative, sia nella modalità a progetto, che di minima entità, nonché associazioni in partecipazione con apporto lavorativo esclusivo o misto (capitale e lavoro).
La norma non specifica se l'annotazione riguarda anche i rimborsi spese che non formano reddito, ovvero solo quelli imponibili fiscalmente e previdenzialmente. In merito è intervenuto per fornire chiarimenti il vademecum predisposto dal Ministero del Lavoro in data 5-12-2008; in esso si afferma che i rimborsi spese vanno "sempre" indicati nel LUL, anche se esenti fiscalmente e contributivamente.
Tuttavia, lo stesso Ministero asserisce che "la mancata annotazione di importi marginali o non ricorrenti potrà non essere di regola sanzionata se è esclusa qualsiasi incidenza di carattere contributivo e fiscale e con obbligo di dettaglio analitico aziendale al riguardo". La locuzione "marginali o non ricorrenti" va intesa come scarsa rilevanza economica con riferimento alla retribuzione annua complessiva di riferimento, mentre non ricorrente equivale ad occasionalità.
Nel vademecum Ministeriale viene chiarito che:
• non è necessario indicare analiticamente nel LUL gli importi, ma è sufficiente annotare il totale, posto che gli importi analitici "possono essere contenuti in un documento a parte";
• non vanno riportate le somme riconducibili a mera anticipazione di spese sostenute dal dipendente in nome e per conto del datore relativamente a documenti di spesa intestati all'azienda medesima;
• vanno riportati, invece, i rimborsi spese effettuati con utilizzo di carta di credito aziendale (così come riferito nel quesito in oggetto) in quanto non conta il mezzo di pagamento con cui i rimborsi vengono effettuati, bensì la "qualità" delle spese rimborsate.

Studenti con contratto a progetto, possibili le conversione dei PDS

L’autonomia del progetto è da dimostrare con idonea documentazione.

IMMAGINE

Anche il contratto a progetto, purchè ne sia dimostrato il carattere di autonomia, consente allo studente extracomunitario già residente in Italia la conversione del permesso di soggiorno da studio a lavoro autonomo.

Il Ministero del lavoro è intervenuto sull’argomento con la circolare n. 23/II/0003361/06/10 per risolvere alcuni dubbi interpretativi che creano disparità di trattamento in sede di conversione dei PDS tra Direzioni Regionali e Provinciali.

Resta peraltro aperta la questione dei nuovi ingressi. L’intervento del Ministero, infatti, non riguarda in ogni caso i flussi stagionali/autonomi regolati dal DPCM del 1 aprile 2010. Allo stato attuale non c’è alcuna possibilità di ingresso con contratto a progetto, sono consentite solo richieste di autorizzazione per imprenditori, liberi professionisti, soci e amministratori, artigiani di alcuni paesi, ecc.

Il Ministero individua due tipi di verifica che andranno attivate dalle Direzioni Provinciali del lavoro al fine del rilascio del parere necessario allo Sportello Unico per definire le domande di conversione dei PDS. La prima riguarda la disponibilità delle quote riservate al lavoro autonomo e la seconda è volta ad accertare il carattere autonomo del contratto a progetto. Subordinazione e parasubordinazione, infatti, non sono ammesse e i requisiti richiesti saranno valutati sulla base della documentazione presentata dallo straniero richiedente.

Il datore di lavoro può limitare o vietare del tutto l'impiego privato di mezzi di comunicazione e d'informazione (PC, telefono)?



Sì. Il datore di lavoro può, ad esempio, emanare una disposizione che impone ai lavoratori l'impiego esclusivo del telefono e dell'e-mail per motivi professionali. Limitare la navigazione in Internet per scopi privati è possibile bloccando i siti indesiderati (indici di borsa, siti erotici ecc.) o stabilendo un periodo di tempo in cui la navigazione privata sia consentita (p. es. durante le pause o a partire dalle ore 18.00).

LA DIFESA NEL PROCEDIMENTO SANZIONATORIO DEL LAVORO



La difesa nel procedimento sanzionatorio del lavoro

a cura del dott. Carmine Santoro

La presentazione di scritti difensivi e la produzione di documenti

A norma dell’art. 18, comma 1, della legge 689 : “Entro il termine di trenta giorni dalla data della contestazione o notificazione della violazione, gli interessati possono far pervenire all'autorità competente a ricevere il rapporto a norma dell'art. 17 scritti difensivi e documenti e possono chiedere di essere sentiti dalla medesima autorità.”
Gli scritti difensivi costituiscono il primo strumento di difesa a disposizione del datore di lavoro sottoposto ad un accertamento ispettivo. Essi non sono un mezzo d’impugnazione amministrativo perché oggetto degli scritti non è un provvedimento, bensì un atto procedimentale: il verbale di contestazione/notifica degli illeciti accertati dal personale ispettivo. Inoltre, la legge non impone all’autorità amministrativa di adottare una decisione specificamente orientata al contenuto delle deduzioni, secondo il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato vigente per i ricorsi amministrativi. La Direzione Provinciale del lavoro, che rappresenta l’Autorità deputata a decidere sulla fondatezza dell’accertamento a norma dell’art. 18 comma 2 della legge 689, è vincolata in maniera circoscritta al contenuto degli scritti in parola, perché nulla impedisce all’organo decidente di scegliere la strada dell’archiviazione, valutando l’accertamento come infondato ex art. 18, comma 2, L. 689, pur a prescindere da quanto dedotto dalla parte privata. In tal senso, la giurisprudenza ammette pacificamente che l’amministrazione possa adottare la sanzione senza replicare puntualmente al contenuto delle scritture private. Allora, gli scritti possono considerarsi atti ad iniziativa di parte diretti ad assicurare il contraddittorio procedimentale, nell’ottica del principio del giusto procedimento, quel procedimento cioè che tenga conto, ai fini della decisione finale, del punto di vista del privato interessato.
In virtù di quanto sopra, può dirsi che se l’autorità è obbligata ad esaminare le memorie private dandone conto in motivazione, d’altronde il privato, destinatario di una contestazione/notifica di violazione amministrativa ai sensi dell’art. 14 della legge 689, può anche rimanere inerte, in attesa dell’eventuale emissione del provvedimento finale dell’ordinanza-ingiunzione, senza che si produca alcuna conseguenza pregiudizievole nei suoi confronti. Un vero onere di impugnare sorge, quindi solo avverso l’atto che ingiunge le sanzioni – l’Ordinanza ingiunzione- poiché altrimenti l’interessato resta esposto alla procedura dell’esecuzione forzata, costituendo lo stesso atto titolo esecutivo.
Da altro versante, la presentazione degli scritti in parola non può nemmeno essere considerata un’istanza di riesame alla P.A., poiché quest’ultima può essere diretta solo avverso l’atto definitivo dell’Ordinanza, ed inoltre essa non vincola l’autorità, la quale resta libera di non prenderla in considerazione, mentre la presentazione degli scritti ex art. 18 cit. impone all’autorità un obbligo di scrutinio e valutazione del loro contenuto, pena la possibile illegittimità dell’ordinanza ingiunzione.
Il privato ha anche facoltà di produrre documenti che si riferiscano all’oggetto dell’accertamento. Non è però prevista un’attività di istruzione probatoria, rientrando nella discrezionalità dell’amministrazione assumere ulteriori informazioni sui fatti, anche tramite testimoni.
Sul piano procedurale, gli scritti possono essere presentati entro trenta giorni dalla contestazione o dalla notificazione. In merito, va in primo luogo specificato che il Legislatore ha adottato la regola delle ricezione (“gli interessati possono far pervenire all'autorità..”) e non quella della spedizione, con la conseguenza che ai fini del rispetto del termine fa fede la data di effettivo arrivo delle memorie alla Direzione provinciale del lavoro competente, e non quella della spedizione. Secondo la consolidata elaborazione giurisprudenziale, nonostante il silenzio normativo, detto termine è da ritenersi perentorio, e pertanto la presentazione intempestiva autorizza l’amministrazione procedente a prescindere dalle doglianze del trasgressore, senza alcuna conseguenza sulla legittimità dei successivi atti procedimentali. Sulle conseguenze della mancata valutazione, da parte dell’autorità competente, degli scritti difensivi prodotti la giurisprudenza è oscillante: un orientamento ritiene irrilevante il vizio di motivazione dell’ordinanza per mancata considerazione delle memorie, mentre l’indirizzo prevalente afferma l’illegittimità provvedimento irrogativo della sanzione, semprechè le deduzioni prospettino fondate questioni di diritto o elementi di fatto decisivi. L’inadeguata considerazione delle argomentazioni di parte potrà viziare la decisione sull’opposizione per errore di diritto o, rispettivamente, per vizio di motivazione.


L’audizione

Il destinatario del verbale di contestazione- o di notifica- ha facoltà di presentare, entro trenta giorni dal ricevimento dell’atto, richiesta di essere sentito personalmente dall’autorità competente a ricevere il rapporto di cui all’art. 17. Tale facoltà può essere esercitata in alternativa, o in aggiunta, a quella della produzione degli scritti difensivi, purchè entro il termine previsto. Oltre che tempestiva, la richiesta deve essere incondizionata ed inequivoca, non cioè deve contenere limiti, condizioni o formule dubitative, come ad es. subordinare l’istanza all’eventuale necessità di chiarimenti da parte dell’amministrazione; ove le memorie riportino tali formule, l’autorità procedente avrebbe facoltà di prescindere dalla richiesta e non disporre l’audizione, senza che si produca alcuna conseguenza sulla legittimità della sanzione irrogata.
A fronte di tale facoltà, c’è l’obbligo della P.A. di ascoltare le ragioni del richiedente, a tutela del diritto di partecipazione e difesa procedimentale del privato, ed in omaggio al principio del giusto procedimento. Anche con riguardo a questa forma di partecipazione-tutela la legge non specifica le modalità di espletamento, né risultano documenti di prassi ministeriale in argomento, per cui deve ritenersi che l’autorità goda di una certa discrezionalità nello scegliere i tempi della convocazione, nel rispetto, beninteso, del termine prescrizionale di cui all’art. 28 della legge 689, e nel concentrare, o meno, l’audizione in una sola seduta. Nella prassi l’interessato viene invitato ad esporre le sue ragioni, delle quali è redatto verbale, che è consegnato in copia al richiedente. E’ consentita la comparizione del professionista di fiducia, appositamente delegato, in rappresentanza o in assistenza all’interessato. Si ritiene che il richiedente possa addurre un legittimo impedimento a presenziare, che tuttavia per vincolare l’amministrazione a rinviare la seduta deve essere adeguatamente dimostrato, ad es. con certificato medico. Viceversa, l’impegno lavorativo non costituisce causa giustificativa della mancata comparizione, atteso che esso è condizione del tutto normale dell’individuo.
Lo scopo dell’audizione è quello di consentire al presunto trasgressore di esporre di persona i propri motivi, in modo tale da rendere, attraverso il contatto diretto con i funzionari chiamati a decidere sul caso, più efficace la strategia difensiva. In virtù di ciò, la giurisprudenza è tradizionalmente rigida nel trarre le conseguenze dell’omessa audizione sulla successiva ordinanza d’ingiunzione: la mancata audizione produce un vizio procedimentale, lesivo del diritto di difesa del richiedente nella fase amministrativa, con conseguente illegittimità dell’ordinanza ingiunzione emessa al termine del procedimento. Ed invero, la convocazione degli interessati costituisce, si è notato, obbligo dell’amministrazione in quanto posta a tutela dei diritti di difesa degli stessi, ma anche della possibile definizione della questione in sede amministrativa in funzione deflativa del contenzioso giurisdizionale.
Registrato siffatto indirizzo pretorio, bisogna, nondimeno, registrare un recente intervento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Cass., sez. un., 28 gennaio 2010, n. 1786),che ha ritenuto irrilevante l’omessa audizione rispetto alla sorte del provvedimento sanzionatorio. In particolare, la Suprema Corte, dopo aver esposto i vari indirizzi, ha affermato che si rivela decisiva l’individuazione della natura del giudizio di opposizione alle sanzioni amministrative di cui agli artt. 22 e 23 della l. n. 689/1981. In un quadro generale nel quale la Corte ha affermato che il diritto di difesa non è leso se le argomentazioni del privato non sono state adeguatamente considerate dall’amministrazione ben potendo esse essere riproposte innanzi al giudice, il giudice supremo ha anche superato il consolidato orientamento pretorio sopra esposto sull’ipotesi di omessa audizione dell’interessato. In virtù di tale presa di posizione, l’autorità non solo non è più vincolata a prendere in considerazione gli argomenti dell’accusato, ma addirittura può prescindere tout court dall’audizione del medesimo. Va rammentato, in proposito, che la Direzione del lavoro dispone comunque, sino al decorso del termine prescrizionale di cui all’art. 28 della legge 689/81, del potere di emettere nuova ordinanza, emendata degli eventuali vizi. Sicchè l’eventuale annullamento giurisdizionale dell’atto, fondato esclusivamente sull’omessa audizione, costituirebbe per l’opponente un’inutile “vittoria di Pirro”. In sostanza, può succedere che all’accoglimento dell’opposizione per l’omessa audizione, segua una nuova istruttoria amministrativa, con convocazione della parte, e nuova ordinanza ingiunzione con ulteriore opposizione giudiziale. In tal caso, ognuno è in grado di notare la superfluità di tale riedizione del potere sanzionatorio, con l’annesso dispendio di risorse e tempo. In questa direzione conduce anche la natura del rito speciale contemplato dall’art. 23 della legge 689, di giudizio non solo sull’atto, ma sull’intero rapporto tra P.A. e privato. Invero, la Cassazione insegna che il giudice deve conoscere della fondatezza dell’intera pretesa sanzionatoria della P.A.: in siffatta ottica, allora, fermarsi a vizi procedimentali che non incidono sulla fondatezza sostanziale della potestà punitiva significa ridurre l’oggetto del giudizio a dati meramente formali.

Per approfondimenti sui temi trattati in questo contributo, si rinvia a
Carmine Santoro “L’illecito amministrativo in materia di lavoro”, edizioni ESI, Napoli 2010

Per la presentazione dell’Autore, del Libro e per la consultazione dei dettagli e dell’indice dell’opera collegarsi al seguente link:

http://www.edizioniesi.it/dettagli_articolo.php?id=764&tipologia=libri&titolo=L^illecito_amministrativo_in_materia_di_lavoro

Licenziamento con contratto a tempo indeterminato


DOMANDA:

Nella ditta in cui lavoro, sono assunta a tempo indeterminato ma non vado d'accordo con uno dei miei capi, non gli sto molto simpatica e hanno già fatto due colloqui con due ragazze. Non riesco a capire se vogliono affiancarmi qualcuno o rimpiazzarmi; non mi hanno detto nulla. A queste condizioni posso aspettarmi un licenziamento?


RISPOSTA

Innanzitutto bisogna dire che in un rapporto a tempo indeterminato condizione necessaria a legittimare un licenziamento è la sua comunicazione nei modi e nei tempi prescritti dal CCNL della categoria di appartenenza; quindi senza aver ricevuto alcuna comunicazione scritta e senza aver firmato per ricevuta la stessa (se notificata come raccomandata a mano) o senza aver ricevuto la notifica a mezzo posta (tramite raccomandata con ricevuta di ritorno), possiamo dire che nessuno può essere “legittimamente” licenziato.

Per il fatto di essere affiancati da qualcuno, beh quello è solo una decisione che può prendere il datore di lavoro nell'incrementare il personale ritenendolo opportuno; per quanto riguarda il rischio di essere “rimpiazzati”, con un contratto a tempo indeterminato non è altrettanto semplice quanto inserire una nuova persona in quanto il datore di lavoro ha quì l' onere di giustificare il licenziamento per attestarne la legittimità, e nel tuo caso di motivazioni valide, se non soggettive, non ce ne sono.


Dott. Bruno Olivieri (www.linformalavoro.blogspot.com)

Benefici cumulabili per chi migliora le condizioni di sicurezza sul lavoro


L'Inail con la nota n. 4736 del 16 giugno 2010 comunica che, per le aziende che eseguono interventi per migliorare le condizioni di sicurezza e igiene sul lavoro, lo sconto edile per gli operai a tempo pieno può essere cumulato con le altre agevolazioni dell'Istituto assicurativo.

Lo sconto dell'11,50% previsto per il 2009 per le imprese edili può essere riconosciuto a tutte le aziende del settore che sono in regola con i versamenti e che hanno iscritto i propri operai alla cassa edile. A due anni dall'inizio delle attività, si possono presentare le domande per la riduzione del tasso medio di tariffa per il calcolo dei premi assicurativi.

Emersione Lavoro Irregolare di Colf e Badanti


Il Governo ha inserito all'interno del cosiddetto 'pacchetto anticrisi' (legge 3 agosto 2009, n. 102, articolo 1-ter) un emendamento che stabilisce la procedura di emersione dei rapporti di lavoro irregolari.

I datori di lavoro che al 30 giugno 2009 hanno impiegato irregolarmente da almeno 3 mesi lavoratori italiani, comunitari o extracomunitari hanno potuto avvalersi della procedura di emersione dal lavoro irregolare. Per i lavoratori extracomunitari la procedura è di competenza del ministero dell'Interno.

Detta procedura è stata attiva sul sito del Ministero dell'Interno dal 1° al 30 settembre 2009. Attraverso la stessa è stata regolarizzata la posizione dei cittadini extracomunitari privi di titolo di soggiorno che abilita allo svolgimento di una attività lavorativa, impiegati presso le famiglie come lavoratori domestici di sostegno al bisogno familiare (colf) o come assistenti di persone affette da patologie o handicap (badanti).

I soggetti interessati:

datori di lavoro;
i cittadini italiani;
i cittadini di un paese membro dell'Unione europea, residenti in Italia;
i cittadini extracomunitari in possesso di titolo di soggiorno CE di lungo periodo;
i familiari extracomunitari di cittadino comunitario che siano in possesso di carta di soggiorno.

VERSAMENTO CONTRIBUTO
TUTTI i datori di lavoro che vorranno partecipare alla procedura di emersione dal lavoro irregolare dovranno, a partire dal 21 agosto, effettuare il pagamento di un contributo di 500 euro per ciascun lavoratore, utilizzando il modello F24.

Scarica il Modello F24 e le istruzioni per la compilazione
Il modello è reperibile anche presso gli sportelli bancari o postali e sui siti dell’Agenzia delle Entrate, del ministero del Lavoro e dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (Inps)
I codici istituiti dall'Agenzia delle Entrate per i versamenti, a partire dal 21 agosto
Informativa sul trattamento dei dati personali

LE CIRCOLARI ESPLICATIVE
La circolare n. 10/2009, a firma congiunta Interno - Lavoro, Salute e Politiche Sociali del 7 agosto 2009 che illustra le procedure per l'emersione dei rapporti di lavoro irregolari
La circolare n. 101 del 10 agosto 2009 dell’Inps

PRESENTAZIONE DELLA DOMANDA
Per i lavoratori italiani, comunitari e extracomunitari muniti di permesso di soggiorno che consente attività di lavoro subordinato e in corso di validità, la dichiarazione di emersione deve essere presentata all’Inps, utilizzando il Modello LD-EM2009, disponibile anche sul sito internet dell’Inps. La dichiarazione ha efficacia di comunicazione obbligatoria e sarà trasmessa ai Servizi competenti del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, all’Inail, nonché ai Servizi regionali.
Il modulo può essere presentato attraverso il Contact Center dell’Inps, al numero 803 164, compilato e inviato on line oppure presentato o spedito per raccomandata con ricevuta di ritorno ad una sede INPS e in tale ultimo caso farà fede la data del timbro postale di spedizione.
L’INPS provvederà all’iscrizione del rapporto di lavoro dopo la verifica dell’avvenuto pagamento della quota forfetaria e della rispondenza di quanto dichiarato alle norme vigenti in materia di lavoro domestico e ne darà comunicazione al datore di lavoro, inviando contestualmente i bollettini necessari per il pagamento dei contributi successivi al 2° trimestre 2009.

Per i lavoratori extracomunitari privi del titolo di soggiorno o in possesso di un permesso di soggiorno che non consente lo svolgimento di attività di lavoro subordinato la domanda va presentata allo Sportello unico per l’immigrazione, esclusivamente in via telematica, attraverso il sito internet del Ministero dell’Interno.

Anticipazione del Tfr per ristrutturazione della casa di proprietà


L'art. 2120 c.c., ottavo comma, individua i casi nei quali il prestatore di lavoro può richiedere l'anticipazione del Tfr limitandoli ad alcuni scopi precisi, ossia:
alle spese sanitarie per terapie ed interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche
all'acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli, documentato con atto notarile.
Altre ipotesi di ammissibilità all'anticipazione del trattamento di fine rapporto sono poi previste dall'art. 7, legge n. 53/2000 in relazione alle spese affrontate dai dipendenti che, quali genitori, si avvalgano del diritto di assenza facoltativa o per la malattia del bambino, ovvero abbiano presentato domanda di congedo per la formazione, accolta dal datore di lavoro, ovvero abbiano partecipato ad iniziative di formazione continua.
Con riferimento alla fattispecie relativa all'acquisto della prima casa si segnala peraltro un orientamento di parte della giurisprudenza di merito volto a equiparare a tale ipotesi anche quella di costruzione in proprio della prima casa di abitazione, al pari di qualsiasi modo di acquisto a titolo originario o derivativo (Pret. Tivoli 11.7.1995; Pret. Pavia 21.12.1983); in questi casi la richiesta deve essere supportata da idonea documentazione onde dimostrare la necessità della spesa (cfr., ad esempio, sent. Trib. di Pavia 13.6.1984 che ha ritenuto che l'acquisto della prima casa di abitazione perseguito mediante costruzione in economia non possa ritenersi validamente documentato dalla dichiarazione sostitutiva di atto notorio, redatta da notaio, contenente le affermazioni dello stesso lavoratore che pretende le anticipazioni, circa la concessione della licenza edilizia e l'inizio dei lavori).
Alla luce di tale orientamento - che, in considerazione della sostanziale identità dello scopo acquisitivo, assimila l'acquisto della prima casa alla costruzione in proprio della stessa - potrebbe anche ritenersi che la richiesta di anticipazione possa essere legittimata, ai sensi dell'ottavo comma art. 2120 c.c., dalla ristrutturazione di una casa di proprietà, sempre che si tratti di spese necessarie per consentire l'abitabilità di un edificio da adibire a prima abitazione del dipendente o dei figli (a tal riguardo, per esempio, talune sentenze di merito hanno considerato estranee alla nozione di acquisto la manutenzione o l'ampliamento della casa già in proprietà. Cfr. Pret. Legnano 3.10.1989; Pret. Como 29.4.1983).
L'ultimo comma dell'art. 2120 c.c. consente inoltre di stabilire, mediante contratti collettivi o individuali, «condizioni di miglior favore». Questa disposizione - secondo la interpretazione fornita dalle SS.UU. nella richiamata sent. n. 7546/1998 - per il suo contenuto e la sua collocazione «si riferisce esclusivamente al regime generale delle anticipazioni che il prestatore di lavoro può ottenere sul TFR, della cui disciplina costituisce una sorta di norma di chiusura, e non può essere interpretata come assenso alla derogabilità in melius del trattamento di fine rapporto».
La stessa sentenza afferma inoltre che la disciplina del Tfr «è dotata di efficacia inderogabile, sia in melius che in peius, non solo nell'ambito della autonomia collettiva - alla quale è lasciata una ampia discrezionalità solo nella determinazione della retribuzione utile ai fini del calcolo del Tfr (art. 2120, secondo comma) - ma anche in quello dell'autonomia individuale, sicchè in materia non è lasciato più alcuno spazio a patti e condizioni più favorevoli al lavoratore, che restano comunque travolti da nullità in conseguenza del loro contrasto con la disciplina inderogabile prevista dalla legge».
Tale arresto giurisprudenziale, mentre da un lato sottolinea la inderogabilità della disciplina del Tfr, pare consentire, dall'altro, la derogabilità con esclusivo riferimento proprio alla disciplina sulle anticipazioni. La possibilità di estensione delle ipotesi di giustificazione dell'anticipo del Tfr deve tuttavia coniugarsi, come è stato osservato da taluna dottrina, con il necessario rispetto del concorso fra gli aventi titolo, cui è improntato l'art. 2120 stesso che, al riguardo, prevede il contenimento dell'anticipazione entro il 70% del trattamento che spetterebbe nel caso di cessazione del rapporto alla data della richiesta nonché entro il limite del 10% degli aventi titolo e del 4% del numero totale dei dipendenti.
In quest'ottica, un accordo individuale che preveda l'ampliamento delle cause di giustificazione elencate dalla legge rischierebbe di alterare il concorso fra aventi titolo e di non poter poi essere opposto agli eventuali prestatori di lavoro concorrenti che avrebbero potuto ottenere l'anticipazione (comporterebbero lo stesso effetto, ad esempio, clausole individuali che prevedessero la diminuzione dell'anzianità di servizio minima o la possibilità di reiterazione dell'anticipo).

Ispezioni sul lavoro: le istruzioni INPS


A seguito della entrata in vigore del D.Lgs. n. 124 del 2004 in materia di riforma della attività di vigilanza ispettiva anche l’INPS, dopo il Ministero del lavoro, emana la circolare 20 settembre 2004, n. 132, atta a fornire le prime istruzioni operative per gli ispettori di vigilanza
Illustriamo i passaggi di maggiore interesse e di novità inseriti nella circolare INPS n. 132 del 20 settembre 2004 e anche nella circolare di Confindustria del 3 settembre 2004.

Coordinamento a livello territoriale

Alle direzioni regionali del lavoro è stato assegnato il compito di coordinare sul territorio regionale l’attività di vigilanza, individuando linee operative e priorità di azione sulla base delle direttive emanate dalla nuova Direzione generale, anche conformemente agli indirizzi e agli obiettivi individuati dalla Commissione centrale di coordinamento. Per lo svolgimento di tale attività, le Direzioni regionali del lavoro (Drl) e le Direzioni provinciali del lavoro (Dpl) consultano, con cadenza almeno trimestrale, le Direzioni regionali degli enti previdenziali.
L’INPS, con la circolare n. 132 del 2004 in commento, sottolinea l’importanza del coinvolgimento dei Direttori regionali e provinciali dell’INPS e dell’INAIL, attuato attraverso consultazioni e riunioni periodiche da tenersi almeno ogni tre mesi. I dirigenti interessati prospetteranno gli indirizzi forniti dalla Direzione generale INPS in materia di attività ispettive per concordare, in tale sede, le rispettive attività in modo tale da evitare duplicazioni di indagini e ottimizzare l’utilizzo delle risorse.

Razionalizzazione dell’attività di vigilanza

In attesa che la banca dati nazionale venga attivata, la circolare ministeriale n. 24/2004 (in Guida al Lavoro n. 27/2004, pag. 12) ha previsto che le informazioni, al momento, siano trasmesse tramite posta elettronica, secondo modalità da definire in sede locale. Per quanto concerne l’INPS, è in fase di predisposizione, nell’Archivio Nazionale Vigilanza, una specifica funzione, atta ad evidenziare tutte le ispezioni iniziate in un determinato periodo dagli operatori dell’Ente. Inoltre, sempre nell’Archivio Vigilanza, si sta predisponendo una particolare sezione ove far confluire le informazioni provenienti dalle Direzioni provinciali del lavoro e dagli altri Enti che svolgono attività di vigilanza. Ciò consentirà un utile scambio di informazioni fra le diverse amministrazioni ed eviterà che si verifichino quelle situazioni che hanno visto una stessa azienda essere controllata più volte ed in breve tempo da ispettori di diversi organi di controllo.
La competenza a svolgere attività ispettiva in materia previdenziale e di assistenza sociale in merito al rispetto degli obblighi previdenziali e contributivi compete anche al personale di vigilanza degli istituti previdenziali per i quali vige una contribuzione obbligatoria.
Detto personale non riveste la qualifica di agente od ufficiale di polizia giudiziaria, mantenendo solo quella di pubblico ufficiale.

Pubblico Ufficiale
Definizione

Per pubblico ufficiale si intende, a norma dell’art. 357 c.p., il soggetto che esercita una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa.

Pertanto, nel caso in cui il personale di vigilanza abbia notizia, nello svolgimento della sua attività, di un reato perseguibile d’ufficio, dovrà farne oggetto di denuncia per iscritto, ai sensi dell’art. 331 c.p.c. Restano fermi, secondo la circolare, i poteri di contestazione degli illeciti amministrativi già riconosciuti in capo a tutto il personale di vigilanza.
Vengono, pertanto, confermati i poteri già assegnati agli ispettori previdenziali (art. 13 della legge n. 638/1983 di conversione del D.L. n. 463 del 1983) di accesso ai locali, di esame delle scritture aziendali, di acquisizione delle dichiarazioni da datori e prestatori di lavoro. L’attività di vigilanza, attuata dagli ispettori previdenziali, è tesa a prevenire ed impedire atti illeciti contrari agli scopi istituzionali dell’Enti coinvolti. Tale attività, influendo sulla sfera giuridica dei soggetti sottoposti alle norme sull’assicurazione obbligatoria, assume la configurazione di attività di polizia amministrativa. L’INPS ha puntualizzato che tale attività è caratterizzata dalla potestà di porre alcune limitazioni alle libertà individuali (ad es. accedere ai locali, esaminare documenti, ispezionare cose e luoghi, ecc.) finalizzata, in base a precise disposizioni di legge, al conseguimento degli specifici scopi dell’Ente e, quindi, nelle materie concernenti la previdenza ed assistenza sociale. Dalla natura giuridica sopraindicata deriva una discrezionalità, propria delle potestà amministrative, che incontra anche essa precisi limiti nelle norme di legge che la disciplinano e nella causa dello specifico atto amministrativo (ispettivo) che deve essere sempre indirizzato allo scopo per il quale il potere è stato concesso.

Riepiloghiamo nella seguente classificazione i poteri concessi:

Potere di ispezione e di accesso - Per l’accertamento delle violazioni di competenza dell’INPS, gli Ispettori possono procedere all’ispezione di cose e luoghi diversi dalla privata dimora, in base a quanto stabilisce l’art. 13 della legge n. 689/1981. Ai fini dell’esercizio del potere di ispezione, gli ispettori possono accedere ai locali delle aziende, agli stabilimenti, ai laboratori, ai cantieri e a qualsiasi altro luogo di lavoro come negozi, esercizi pubblici, studi professionali e ai locali nei quali viene svolta un’attività lavorativa assoggettabile alle norme di legge sull’assicurazione sociale (art. 3, comma l, lett. a, legge n. 638/1983). Sono, viceversa, esclusi dal potere di accesso l’abitazione ovvero il luogo in cui una persona fisica adempie ai bisogni elementari della sua esistenza, salvo che l’interessato non presti per iscritto il proprio consenso. Tuttavia, su questo argomento la sentenza della Cassazione n. 16904/1998 ha stabilito che senza l’autorizzazione della magistratura, l’accesso nelle abitazioni dei lavoratori è vietato, anche con l’assenso degli interessati. Ad onor del vero questo indirizzo faceva riferimento a verifiche fiscali, ma potrebbe riferirsi indirettamente anche alle ispezioni del lavoro. Le conseguenze giuridiche di un’eventuale violazione del divieto sono la nullità degli atti relativi. Tuttavia è da non ritenersi mai nullo un accertamento effettuato in locali dichiarati ad uso abitativo ma utilizzati, dal contribuente, per lo svolgimento di attività commerciali, agricole o professionale.
Potere di accertamento - Il potere di accertamento consiste nell’attività di osservazione, di ricerca di notizie e prove per verificare l’esistenza dei presupposti del rapporto assicurativo, dell’obbligazione contributiva e delle prestazioni, nonché per verificare il regolare svolgimento del procedimento amministrativo di riscossione dei contributi anche nei suoi aspetti formali (adempimenti del datore di lavoro e/o del lavoratore). In base a quanto previsto dalla lettera b) del comma 10 dell’art. 3 della legge n. 638/1983, il potere di accertamento si realizza attraverso l’assunzione di dichiarazioni e notizie che possono essere richieste ai datori di lavoro, ai lavoratori, alle rappresentanze sindacali e agli Istituti di Patronato. Le dichiarazioni e le notizie sono rese dai dichiaranti con un atto scritto. Nel sottoscrivere le eventuali dichiarazioni rese, il dichiarante deve dare atto di averle lette o di averne ricevuto lettura e di confermarne il contenuto.
Potere di contestazione - Il potere di contestazione consiste, ai sensi dell’art. 14 della legge n. 689/1981, nella comunicazione della commessa infrazione al trasgressore da parte dell’Ispettore che ha proceduto all’accertamento, attraverso la notifica del verbale di accertamento. Il potere di contestazione ha fondamento nel rapporto organico esistente fra l’Ente e il suo funzionario. Egli, infatti, manifesta con la contestazione la volontà dell’Ente, emanando un provvedimento preordinato alla realizzazione di interessi specifici della pubblica amministrazione, consistente in statuizioni destinate a produrre modificazioni di situazioni giuridiche.
Potere di sequestro - L’art. 13, comma 2, legge n. 689/1981 stabilisce che: "gli organi addetti al controllo possono altresì procedere al sequestro cautelare delle cose che possono formare oggetto di confisca amministrativa, nei modi e con i limiti con cui il codice di procedura penale consente il sequestro alla polizia giudiziaria". Per effetto del richiamo espresso al citato art. 13, contenuto nel comma 5, dell’art. 35 legge n. 689/1981, si deve ritenere attribuito agli Ispettori di vigilanza dell’INPS anche il potere di sequestro, limitatamente alle cose che costituiscono la prova dell’illecito amministrativo previdenziale. Il sequestro andrà rigorosamente limitato, nei soli casi di effettiva necessità, ai documenti. Inoltre, considerato che, in base ai poteri spettanti in genere ai pubblici ufficiali, l’Ispettore stesso ha facoltà di dichiarare "conforme all’originale" la copia dei documenti. Effettuata la copia, potrà essere disposto il dissequestro ed i documenti restituiti all’interessato.

Il potere di diffida

Viene attribuito, dal comma 4, dell’art. 13, D.Lgs. n. 124/2004 il nuovo potere di diffida nei casi per i quali siano irrogabili le sanzioni amministrative. La diffida, come illustrato anche dalla circolare di Confindustria del 3 settembre 2004, n. 18107, consiste in un atto di intimazione, ossia in un formale avvertimento, con il quale gli ispettori del lavoro richiamano i destinatari di una norma all’adempimento di un obbligo legislativo perfetto, che la diffida medesima non modifica o integra in alcun modo (cfr. Cass. n. 46/1965). Ai sensi dell’articolo 13 del predetto decreto, l’Ispettore del lavoro e gli Ispettori degli enti previdenziali (questi ultimi limitatamente alle inadempienze da loro rilevate nella materia della previdenza e assistenza sociale), sono tenuti a diffidare il datore di lavoro alla regolarizzazione delle inosservanze, fissando un termine per l’adempimento. La diffida, in tali ipotesi, si risolve in un accertamento della condotta posta in essere e nell’ammissione al pagamento di una sanzione ridotta. Ed infatti, il comma 2, dell’art. 13, del D.Lgs. n. 124/2004 stabilisce che se il datore di lavoro adempie alla diffida, rimuovendo l’irregolarità nel termine prescritto dall’ispettore, sarà ammesso a pagare la sanzione nella misura minima, ovvero ridotta ad un quarto se la sanzione amministrativa è stabilita in misura fissa. Il pagamento delle sanzioni, nell’importo sopra descritto, estingue il procedimento sanzionatorio nei confronti del datore di lavoro. L’art. 13, comma 3, del D.Lgs. n. 124/2004 dispone che, a seguito della diffida, si interrompono i termini di cui all’art. 14 della legge n. 689/1981, fino al termine fissato dall’ispettore per la regolarizzazione. La predetta circolare ministeriale aggiunge che la diffida trova applicazione a decorrere dal 27 maggio 2004 ed è applicabile anche alle violazioni commesse antecedentemente a tale data.
Le istruzioni INPS - Per quanto concerne le istruzioni fornite dall’INPS, la circolare n. 132/2004 ribadisce che questo strumento sarà utilizzato a seguito di accertamento di illeciti sanabili e dai quali derivano solo sanzioni amministrative come, ad esempio, la mancata registrazione dei dati sui libri matricola e paga oppure la mancata corresponsione degli assegni al nucleo familiare (illeciti riconducibili agli articoli 14 e 35, comma 7, della legge n. 689/1981).
È comunque auspicabile che vengano risolti alcuni aspetti. È da chiarire, infatti, cosa accade se durante una visita ispettiva INPS vengono accertate, ad esempio, differenze retributive non quantificabili (un non ben definito numero di ore di straordinario non retribuito). Se l’azienda ed il lavoratore dovessero decidere di avviare presso la Direzione provinciale del lavoro (Dpl) un tentativo di conciliazione prima della notifica del verbale INPS cosa accade? Il verbale prosegue regolarmente o deve sospendersi, o deve eventualmente interrompersi solo per la materia oggetto di conciliazione? Sarebbe stato opportuno, poi, chiarire se e come potrà scattare l’istituto della diffida in caso di lavoro nero (ad esempio un lavoratore non iscritto ai libri paga e matricola e per il quale non è ancora scaduto il termine del pagamento dei contributi previdenziali). Su quest’ultimo e delicato argomento il dibattito è ancora aperto e non tutti i commentatori sono d’accordo.

Il valore probatorio dei verbali di accertamento

Di particolare rilevanza è il dettato dell’art. 10, comma 5, del D.Lgs. n. 124/2004, secondo il quale i verbali di accertamento del personale che effettua vigilanza costituiscono fonte di prova in ordine agli elementi di fatto acquisiti e documentati e possono essere reciprocamente utilizzati per la adozione di eventuali provvedimenti sanzionatori, amministrativi e civili, di competenza dei diversi organi ispettivi. Infatti, i verbali di accertamento dei diversi corpi ispettivi costituiscono fonte di prova in ordine agli elementi di fatto acquisiti e documentati e possono essere reciprocamente utilizzati dalle diverse amministrazioni al fine di adottare eventuali provvedimenti sanzionatori di competenza dei diversi organi di vigilanza (Ispettorato, INPS, INAIL, Guardia di Finanza, ecc.). La circolare ministeriale n. 24/2004 ha codificato opportunamente ed in via definitiva, un modo di operare che di fatto già è in essere. In particolare, sia l’art. 19 della legge n. 413 del 1991 sia l’art. 36 del D.P.R. n. 600 del 1973 dispongono che i soggetti pubblici incaricati istituzionalmente di svolgere attività ispettive e che a causa delle loro funzioni vengono a conoscenza di fatti che, nella fattispecie, possono configurarsi come violazioni tributarie devono comunicarli direttamente al Comando della Guardia di Finanza competente, fornendo l’eventuale documentazione atta a comprovarli. La sentenza della Cassazione n. 7832/2001, richiamata dalla stessa circolare, ha poi puntualizzato che, riferendosi a verbali di accertamento INPS, questi ultimi rientrano tra i documenti che devono essere trasmessi agli uffici finanziari, quando si profilino violazioni tributarie. Pertanto, continua la predetta sentenza, la tesi della inutilizzabilità diretta delle acquisizioni effettuate da altre amministrazioni pubbliche sarebbe in contrasto con i principi di buon andamento ed unicità della pubblica amministrazione, in quanto costringerebbe gli uffici finanziari a non utilizzare elementi conoscitivi acquisiti da altri uffici pubblici. Proprio per questo la circolare n. 24/2004 sottolinea che gli elementi acquisiti in sede di vigilanza anche da altri soggetti e riportati nei verbali di accertamento godono tutti della medesima fede privilegiata. Su quest’ultimo aspetto si sono pronunciate anche ulteriori e diverse sentenze (fra le tante le nn. 9827 e 2275/2000), le quali specificano che i verbali ispettivi sono assistiti dalla fede privilegiata che tali atti posseggono in relazione a quanto il pubblico ufficiale abbia attestato in sua presenza. Vi è da ricordare, comunque, che sull’efficacia dei verbali in sede di giudizio, l’orientamento giurisprudenziale è uniforme nello stabilire che i verbali redatti da pubblici ufficiali hanno piena efficacia e fanno piena prova dei fatti che gli stessi attestino avvenuti in loro presenza fino a querela di falso (sentenze n. 3746/1995 e n. 8659/1999). La circolare di Confindustria del 3 settembre 2004 aggiunge che il giudice può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire al verbale il valore di un vero e proprio accertamento (tra le più recenti Cass. Civile n. 10128/2003). In genere, quindi, i verbali redatti dagli ispettori del lavoro, o comunque dai funzionari degli enti previdenziali, fanno fede fino a querela di falso solo relativamente alla loro provenienza dal sottoscrittore, alle dichiarazioni a lui rese ed agli altri fatti che egli attesti come avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, mentre, per quanto riguarda le altre circostanze di fatto che egli segnali di avere accertato nel corso dell’inchiesta per averle apprese da terzi o in seguito ad altre indagini, i verbali, per la loro natura di atto pubblico, hanno un’attendibilità che può essere infirmata solo da una specifica prova contraria. È tuttavia opportuno segnalare che per alcune pronunce (Cass. n. 9963/2002) le dichiarazioni dei lavoratori assunte dai funzionari all’interno dei verbali, per assumere efficacia probatoria devono essere riconfermate in giudizio dalle persone che le hanno rese. Sulla questione viene sottolineato dall’INPS la necessità di reperire con cura tutte le informazioni utili non soltanto ai fini della corretta rilevazione delle irregolarità ma anche per renderle utili alle altre Amministrazioni. Tale puntualizzazione si rende necessaria anche perché le attuali disposizioni impediscono il reiterarsi delle indagini sulla stessa azienda. Infatti, ai sensi del decreto legge n. 318/1996 (convertito in legge n. 402/1996), nei casi di attestata regolarità ovvero di regolarizzazione conseguente all’accertamento ispettivo eseguito, gli adempimenti amministrativi e contributivi relativi ai periodi di paga anteriore alla data della verifica non possono essere oggetto di ulteriori contestazioni in successive ispezioni, salvo quelle determinate da comportamenti omissivi o irregolari del datore di lavoro o conseguenti a denunce del lavoratore. La disposizione in esame si applica anche agli atti e documenti esaminati dagli ispettori e indicati nel verbale di accertamento, nonché ai verbali redatti dai funzionari dell’Ispettorato del lavoro in materia previdenziale e assicurativa. Per tal motivo, la circolare n. 132 aggiunge che nel caso in cui l’accertamento ha un mandato limitato e quindi finalizzato a verificare solo alcune particolari irregolarità o è relativo a limitati periodi di tempo, tali ipotesi devono essere evidenziate nel verbale di accertamento. Questo vale anche per i verbali che vengono inviati all’Ente previdenziale da altre Amministrazioni.

La conciliazione

Per quanto concerne la conciliazione, l’Istituto fissa i termini di pagamento dei contributi dovuti sulle somme oggetto della conciliazione, e ricorda che, in ogni caso, i contributi stessi non possono essere inferiori a quelli calcolati sui minimali di legge. Si ritiene corretta l’interpretazione di Confindustria laddove viene illustrato che nel caso in cui la somma transattivamente stabilita risulti superiore a tale minimale di legge, l’importo concordato costituirà sempre la base imponibile, anche nel caso in cui dovesse risultare inferiore ai minimali contrattuali, determinati ex art. 1 del D.L. n. 338/1989, come convertito in legge n. 389/1989.
Le precisazioni INPS - La circolare dell’Istituto previdenziale, puntualizza, inoltre, che il momento dell’insorgenza dell’obbligo nei confronti dell’INPS coincide con la scadenza di pagamento delle somme da corrispondere al lavoratore. Pertanto, i versamenti devono essere effettuati entro il 16 del mese successivo a tale scadenza, sebbene per le modalità di versamento e per la compilazione della apposita modulistica bisogna attendere ulteriori istruzioni. Da rilevare, infine, che le somme conciliate devono essere ripartite per periodi di competenza, al fine del corretto accredito contributivo sulle posizioni individuali. Si ricorda che vengono esclusi dall’ambito applicativo della conciliazione monocratica i rapporti certificati ex art. 75 e ss. D.Lgs. n. 276/2003, delineando per essi una sorta di riserva in capo alla Commissione ex art. 410 c.p.c. Questa interpretazione non è condivisa dalla Confindustria, in quanto, così come viene spiegato nella citata circolare, l’art. 80, comma 1, D.Lgs. n. 276 del 2003, elenca in modo tassativo le cause di "impugnazione" del rapporto certificato innanzi all’autorità giudiziaria, preceduta dal consueto tentativo obbligatorio di conciliazione. Conseguentemente, queste ipotesi (erronea qualificazione del contratto, difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione, vizi del consenso) non attengono al distinto problema dell’eventuale inadempimento delle obbligazioni di natura patrimoniale derivanti dal contratto che ben potrebbero formare oggetto di conciliazione monocratica anche nel caso di rapporto certificato.

Le conseguenze dell’adesione all’interpello

L’articolo 9 del D.Lgs. n. 124/2004 ha introdotto il diritto di interpello per questioni di competenza del Ministero del lavoro e degli enti previdenziali, mutuando in parte questo istituto dallo Statuto del contribuente. Lo Statuto, ricordiamo, prevede che sia direttamente il contribuente a porre quesiti di natura fiscale, laddove vi siano obiettive condizioni di incertezza. In mancanza di risposta viene inteso che scatti il silenzio-assenso e che l’Amministrazione finanziaria concorda con la versione del contribuente. Nel caso, invece, disciplinato dal decreto di riforma dei servizi ispettivi vi sono alcune sostanziali differenze. La circolare ministeriale e quella dell’INPS confermano, soprattutto, che i quesiti devono essere posti solo da associazioni di categoria, da ordini professionali e da enti pubblici e che devono riguardare esclusivamente aspetti di carattere generale.
Viene precisato, a tal proposito, che le sedi della Direzione provinciale del lavoro (Dpl) e degli enti dovranno escludere tutte quelle domande di carattere particolare o proposte da singole aziende. Anche in questo caso si ritiene che vi siano alcune questioni da chiarire e cioè: non vengono stabiliti tempi di risposta ai quesiti stessi. Resta, quindi, il dubbio se bisogna far riferimento, come probabile, ai termini previsti dalle norme sulla trasparenza degli atti amministrativi oppure ai 120 giorni stabiliti in materia fiscale.
La circolare ministeriale n. 24 del 2004 dispone che, fermi restando gli effetti civili tra le parti e le eventuali conseguenze sul piano previdenziale, l’adesione del datore di lavoro alla risposta fornita dalla Direzione generale sarà oggetto di valutazione ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo (colpa o dolo) nella commissione degli illeciti amministrativi ai sensi dell’art. 3 della legge n. 689/1981 nonché delle applicazioni delle sanzioni civili. A parere di chi scrive la norma non è di immediata lettura. L’art. 3 della legge menzionata recita che nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa. Pertanto, ai fini della contestazione dell’illecito amministrativo non vi è differenza fra un comportamento doloso o colposo. La distinzione tra reato doloso e reato colposo è data dall’art. 43 c.p.: il delitto è doloso quando l’evento dannoso o pericoloso è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione; è colposo quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
Una ulteriore ipotesi è data dal comma 2 del medesimo articolo 3 della legge n. 689/1981. La legge in esame si occupa dell’errore sul fatto (art. 47 c.p., comma 1), da cui ne consegue che se la conoscenza del fatto è elemento costitutivo dell’imputazione dolosa e l’errore previsto dal codice penale consiste nella mancata o errata rappresentazione del fatto, ne consegue che se l’autore commette un errore avente ad oggetto il fatto illecito, egli non è punibile a titolo di dolo per mancanza di un requisito strutturale del dolo stesso. Lo spirito di tale disposizione è che la preventiva rappresentazione del fatto, pur essendo elemento costitutivo del dolo, non costituisce invece una componente strutturale della colpa. Infatti, non c’è incompatibilità tra la colpa e la previsione dell’evento: nell’ambito della struttura psicologica della colpa si suole appunto distinguere tra colpa cosciente o incosciente, a seconda che la condotta sia o meno sorretta dalla previsione del fatto. Pertanto, l’errore sul fatto esclude l’imputazione dolosa, ma non fa venir meno la punibilità a titolo di colpa nelle ipotesi di errore determinato da colpa dell’agente. In conclusione, l’errore opera come fattore che esclude l’elemento soggettivo dell’illecito qualora sia incolpevole, ossia non evitabile con l’ordinaria diligenza. Grava sul soggetto che invoca la non punibilità per mancanza dell’elemento soggettivo, l’onere di provare la sussistenza dell’errore incolpevole. Come da orientamenti giurisprudenziali, la buona fede può rilevare come causa di esclusione della responsabilità amministrativa soltanto in caso di errore incolpevole, ossia in presenza di elementi positivi estranei all’agente ed idonei ad ingenerare il convincimento sulla liceità del suo operato. Spetta, come detto, all’autore della violazione provare la sussistenza di eventuali rassicurazioni della pubblica amministrazione, tali da indurlo in errore incolpevole, ossia non evitabile con l’ordinaria diligenza.
In materia di diritto di interpello introdotto dal D.Lgs. n. 124/2004, il legislatore valuta in maniera positiva l’adesione del datore di lavoro alla risposta data dalla direzione, ma non sembra evincersi in che modo l’adesione eviti automaticamente la contestazione di illecito amministrativo. Sarà, comunque, l’ispettore a valutare in sede ispettiva la posizione del datore di lavoro, sebbene sarebbe stato forse opportuno fornire qualche indicazione in più sulle modalità operative che l’ispettore dell’INPS dovrà seguire se rileverà il ritardato o mancato adeguamento (ai fini della colpa e del dolo). Ad ogni modo, sulla base dei principi sopra elencati, dovrebbe scattare l’onere della prova da parte del datore di lavoro per evidenziare "l’errore incolpevole" al fine di evitare la contestazione dell’illecito amministrativo. Per quanto concerne, in particolare, l’Istituto previdenziale, l’interpello riguarda questioni di carattere generale su materie strettamente previdenziali e deve essere inviato dalle associazioni di categoria, da ordini professionali e dagli enti pubblici alla Direzione centrale entrate contributive solo per via telematica all’indirizzo interpello.entratecontributive@inps.it, di prossima istituzione. Fra i diversi casi prospettati vi sono il corretto inquadramento aziendale, la variazione dello stesso e l’inquadramento di attività plurime, questioni queste spesso oggetto di contenzioso (vedi prospetto con esempi di contenzioso risolti con decisioni della Cassazione).
È da evidenziare, tuttavia, che dopo l’ampliamento delle tipologie di lavoro introdotte dalla Riforma Biagi e con la possibilità degli Ispettori INPS di entrare nel merito dei rapporti di lavoro ai fini dell’assoggettamento contributivo (si veda il disconoscimento di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa trasformati in rapporti di lavoro subordinato) i quesiti ipotizzabili saranno di certo di più vasta portata.
È innegabile che il diritto di interpello esteso alle materie lavoristiche e previdenziali potrà, se ben utilizzato, favorire certamente un comportamento più uniforme su tutto il territorio nazionale da parte di quelle aziende interessate alle questioni poste in essere. Il presupposto, ovviamente, è che le risposte fornite siano chiare e rapide e che abbiano una adeguata pubblicità, anche attraverso l’emanazione di ulteriori ed apposite circolari chiarificatrici.

Interruzione dei termini prescrizionali

Dal 1° gennaio 1996 i termini per interrompere la prescrizione e per effettuare un successivo atto interruttivo, sono di 5 anni, così come disposto dalla legge n. 335/1995, art. 3, commi 9 e 10 (la legge 27 dicembre 2002 n. 289 - finanziaria 2003 - all’art. 38, comma 7, dispone che "nell’ipotesi di periodi non coperti da contribuzione risultanti dall’estratto conto, relativi all’anno 1998, il termine di prescrizione, è sospeso per un periodo di 18 mesi a decorrere dal 1° gennaio 2003").
Tale periodo, limitatamente alla contribuzione relativa alle gestioni pensionistiche obbligatorie, è poi elevato a 10 anni in presenza di denuncia del lavoratore (INPS, circolare n. 262/1995). Pertanto, il termine prescrizionale resta decennale anche dopo il 1° gennaio 1996 qualora l’azione di recupero dei contributi omessi sia iniziata a seguito di denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti. La denuncia può riguardare sia la mancata assicurazione da parte del datore di lavoro, sia il mancato versamento dei contributi dovuti. Tale particolare termine prescrizionale peraltro deve intendersi, come precisato dall’INPS, limitato solo alla contribuzione relativa al lavoratore denunciante e non può essere estesa ad altri eventuali lavoratori interessati nei cui confronti persista una analoga omissione contributiva. La denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti deve essere presentata ad una autorità competente (Istituto assicuratore, Ispettorato del Lavoro, Autorità Giudiziaria). L’INPS sottolinea la necessità per l’Istituto stesso di porre in essere, non appena venuto a conoscenza della denuncia del lavoratore, gli atti interruttivi della prescrizione nei confronti del datore di lavoro inadempiente. Ciò comporta che non possono essere considerate quali denunce le dichiarazioni dei lavoratori acquisite in sede ispettiva, a meno che le stesse non vengano formalizzate con alcune particolari modalità. Infatti deve essere fatta denuncia formale del lavoratore (possibilmente da redigere sul mod. Vig.1) diretta ad informare l’Istituto Previdenziale dell’esistenza di una omissione contributiva, parziale o totale. Tale denuncia formale può essere sottoscritta dal lavoratore anche durante lo svolgimento dell’ispezione a seguito dei chiarimenti forniti al dipendente dall’Ispettore di vigilanza.

Il regime sanzionatorio

L’art. 116, comma 8 e seguenti, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, ha delineato un nuovo regime sanzionatorio per i casi di omesso o ritardato pagamento dei contributi. L’INPS, nel descrivere l’applicazione di tale nuovo sistema, ha emesso la circolare n. 110/2001. In particolare, si configura l’ipotesi dell’evasione, perseguita dal legislatore con maggiore severità, nel caso in cui l’inadempienza nel versamento dei contributi sia connessa a registrazioni o denunce obbligatorie omesse o non conformi al vero, cioè nel caso in cui il datore di lavoro, con l’intenzione specifica di non versare i contributi o premi, occulta rapporti di lavoro in essere ovvero le retribuzioni erogate. Tra le più frequenti irregolarità che concretizzano l’ipotesi dell’evasione come sopra configurata, l’INPS segnala nella citata circolare n. 110/2001: la mancata iscrizione della azienda all’Ente previdenziale; la mancata iscrizione sui libri aziendali di uno o più dipendenti; l’infedele registrazione delle retribuzioni; oltre, ovviamente, alla mancata denuncia di specifiche partite; l’omessa o tardiva presentazione delle denunce obbligatorie e la loro infedeltà. Per quanto concerne le collaborazioni coordinate e continuative, la circolare n. 110/2001 dell’INPS affermava che - per quanto attiene all’ipotesi di "simulazione del rapporto di lavoro subordinato" - fattispecie che si ritiene possa configurarsi nei casi di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa o di rapporti di lavoro dichiarati di natura autonoma, successivamente individuati come subordinati - il Ministero del lavoro e della previdenza sociale - con circolare n. 12 del 22 gennaio 2001, aveva spiegato che "al fine di consentire agli Istituti previdenziali di procedere al recupero dei contributi …", ha configurato tale ipotesi come evasione. A distanza di tempo, però, l’INPS è ritornata sulla questione decidendo che il rapporto di lavoro simulato non viene più sanzionato come evasione bensì come omissione contributiva. Questo vuol dire che in sede di verifica ispettiva non sono applicate le sanzioni del 30% ma quelle più favorevoli che prevedono l’applicazione della sanzione civile del Tur maggiorato del 5,5%.
Il cambiamento di rotta è stato illustrato con la circolare INPS n. 74/2003. In precedenza, come sopra accennato, si era arrivati alla conclusione che alla simulazione del rapporto di lavoro subordinato bisognava applicare l’art. 116, comma 8, lett. b)della legge n. 388/2000, in quanto considerata evasione contributiva. Le aziende hanno contestato la configurazione di evasione contributiva in sede amministrativa e giudiziaria, con negativi riflessi sui tempi di recupero dei contributi accertati a causa dell’enorme contenzioso. L’INPS ha illustrato le motivazioni che hanno indotto a rivedere tale orientamento e spiega che l’intento del legislatore è stato quello di accentuare l’effetto punitivo nei confronti di fenomeni a maggiore pericolosità sociale, avendo a riferimento la classica evasione contributiva, quale l’utilizzo intenzionale di lavoratori in nero o l’erogazione di emolumenti volutamente non assoggettati a prelievo. La simulazione del rapporto, invece, prevede in ogni caso una serie di denunce e registrazioni obbligatorie delle quali l’Istituto è a conoscenza attraverso la riscossione dei contributi che l’azienda versa oltreché attraverso le ispezioni. La presenza di queste denunce e dei pagamenti, continua l’Istituto, non consente di affermare con certezza di essere in presenza di un rapporto simulato basato sulla intenzionalità. Del resto, continua la circolare n. 132/2004 in commento, anche le nuove forme contrattuali, introdotte dalla legge n. 30 del 2003, possono assumere caratteristiche diverse da quelle proprie del rapporto di lavoro subordinato.
È solo il concreto atteggiarsi della prestazione, spesso indipendente dalla volontà delle parti, o quanto meno da quella espressa all’origine, che può far propendere per una accentuazione del vincolo della subordinazione e quindi indurre gli organi di vigilanza alla trasformazione del rapporto.

Ricorsi ai Comitati regionali del lavoro

I ricorsi avverso i verbali ispettivi aventi ad oggetto la qualificazione e la sussistenza dei rapporti di lavoro sono attribuiti alla competenza dei Comitati regionali del lavoro, organi di nuova istituzione, composti dal Direttore regionale del lavoro, che lo presiede, e dai Direttori regionali dell’INPS e dell’INAIL.
Il ricorso può essere proposto avverso contestazioni o notificazioni di illecito amministrativo delle Direzioni provinciali del lavoro (Dpl), ordinanze-ingiunzioni delle Dpl, verbali di accertamento di INPS, INAIL e altri enti previdenziali. Quest’ultimo passaggio conferma che anche gli ispettori degli enti previdenziali possono entrare nel merito dei rapporti di lavoro ai fini del calcolo dei contributi dovuti.
I ricorsi vanno decisi entro novanta giorni dalla loro presentazione, decorsi i quali devono intendersi respinti. Al riguardo, la circolare ministeriale fissa un termine per la presentazione del ricorso (30 giorni dalla notifica della contestazione).
Relativamente ai ricorsi presentati fino alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 124/2004 (27 maggio 2004) - come già indicato nel messaggio INPS n. 20291 del 25 giugno 2004 - questi restano attribuiti alla competenza dei Comitati regionali dell’Istituto.

I poteri attribuiti agli Ispettori di vigilanza
I poteri degli Ispettori INPS (circolare n. 51047/1986)

Potere di ispezione e di accesso
Per l’accertamento delle violazioni di competenza dell’INPS, gli Ispettori possono procedere all’ispezione di cose e luoghi diversi dalla privata dimora, in base a quanto stabilisce il citato art. 13 della legge 689/1981.

Potere di contestazione
Il potere di contestazione consiste, ai sensi dell’art. 14 della legge n. 689/1981, nella comunicazione della commessa infrazione al trasgressore da parte dell’Ispettore che ha proceduto all’accertamento.

Potere di accertamento
Il potere di accertamento consiste nell’attività di osservazione, di ricerca di notizie anche attraverso l’acquisizione di dichiarazioni e prove per verificare l’esistenza dei presupposti del rapporto assicurativo, dell’obbligazione contributiva e delle prestazioni, nonché per verificare il regolare svolgimento del procedimento amministrativo di riscossione dei contributi anche nei suoi aspetti formali (adempimenti del datore di lavoro e/o del lavoratore).

Potere di sequestro
L’art. 13, comma 2, della legge n. 689/1981 stabilisce che gli organi addetti al controllo possono altresì procedere al sequestro cautelare delle cose che possono formare oggetto di confisca amministrativa, nei modi e con i limiti con cui il codice di procedura penale consente il sequestro alla polizia giudiziaria.

L’inquadramento aziendale nelle sentenze della Cassazione

Fra le sentenze della Cassazione, la n. 4954/2002 si è pronunciata sulla questione stabilendo che in tema di classificazione di una impresa ai fini previdenziali, ove l’attività dell’imprenditore abbia carattere promiscuo occorre tener conto, in relazione alle finalità economiche perseguite, dell’attività primaria svolta dall’impresa rispetto alla quale le altre risultino secondarie, ponendosi in rapporto di mera complementarietà, a meno che l’imprenditore eserciti una pluralità di attività con organizzazioni autonome e distinte tra loro non reciprocamente condizionate e riconducibili ad aziende separate, nel qual caso per ciascuna di esse deve valere la corrispondente qualificazione di azienda industriale o commerciale.
In materia di variazione del precedente inquadramento aziendale la Corte di Cassazione, con sentenza n. 10459/2002, afferma che in "tema di classificazione delle imprese ai fini contributi, secondo la disciplina di cui agli art. 49 e 50 della legge n. 88/1989, deve ritenersi ammissibile l’azione di accertamento proposta dall’imprenditore a seguito del provvedimento dell’INPS di variazione del precedente inquadramento, a nulla rilevando che l’ente previdenziale non abbia ancora avanzato specifiche pretese contributive in conseguenza della nuova classificazione; la finalità della indicata disciplina, infatti, è quella di consentire all’impresa di poter eliminare un’obiettiva incertezza circa l’atteggiarsi del rapporto giuridico previdenziale, nonché, conseguentemente, circa l’esatta portata dei diritti e degli obblighi da esso scaturenti, dovendosi presumere che da tale stato di incertezza derivi alla stessa impresa il pericolo attuale di un pregiudizio".



Validità dell’atto interruttivo

L’atto interruttivo della prescrizione, per essere valido, deve contenere sempre la quantificazione del credito, o l’indicazione di tutti gli elementi che consentano al debitore di pervenire alla sua quantificazione. La decorrenza dei termini di prescrizione presuppone che il debitore abbia messo in grado l’Istituto di conoscere l’entità del debito contributivo (circolare n. 55/2000). Pertanto, nell’ipotesi in cui ciò non avvenga, e l’Istituto non abbia avuto la possibilità di rilevarlo, la prescrizione non può decorrere poiché l’Istituto stesso si trova nella impossibilità di esercitare il proprio diritto di credito. A titolo di esempio: datori di lavoro che abbiano dolosamente occultato l’utilizzo di lavoratori dipendenti nella propria attività avendo evitato di iscriversi negli appositi albi e non essendosi muniti di libri paga e matricola; oppure artigiani o commercianti che abbiano denunciato al fisco parzialmente il proprio reddito d’impresa, o non lo abbiano denunciato affatto.

A cura di Temistocle Bussino (Funzionario ispettivo INPS)