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I verbali redatti da funzionari degli enti previdenziali danno prova completa dei fatti riscontrati



(Cassazione, Ordinanza 29.7.2010 n. 17720)

Rilevato che la ricorrente sostiene che l'Inps non avrebbe dedotto l'esistenza dei fatti costitutivi della sua pretesa, mentre, al contrario, risulta dagli atti, che questa Corte deve consultare essendosi dedotto un errore in procedendo, che l'Istituto si costituii in sede di opposizione a decreto ingiuntivo con memoria in cui si rimandava al verbale ispettivo, peraltro ad essa spillato e quindi facente parte della memoria medesima, in cui risultavano tutte le indicazioni necessarie, ossia i nomi dei dipendenti che avevano lavorato "in nero", nonché i singoli periodi di lavoro, ed anche i nomi dei dipendenti per i quali risultavano omissioni contributive per giornate non registrate e per minore orario di lavoro registrato;
inoltre al medesimo verbale risultano allegati specifici conteggi dei contributi omessi (mod. DM 10V); vi è pertanto l'allegazione dei fatti costitutivi da parte dell'Istituto; ne consegue l'applicabilità del principio già affermato (Cass. n. 17494 del 28/07/2009) per cui "La L. n. 533 del 1973 non ha fatto venir meno l'ammissibilità del procedimento d'ingiunzione per i crediti di lavoro e previdenziali, ma si è limitata a prevedere l'applicabilità del rito del lavoro nel giudizio di opposizione, con la conseguenza che, configurandosi la prima fase come procedimento speciale a cognizione sommaria, retto dalle disposizioni sue proprie, il ricorso può essere redatto anche in modo sommario, purché sia accompagnato da uno dei documenti di cui agli artt. 634, 635 e 636 cod. proc. civ., mentre nella seconda fase, che costituisce un ordinario giudizio di cognizione, l'opposto, in qualità di attore in senso sostanziale, deve integrare la domanda proponendo nell'atto di costituzione, oltre alle necessarie specificazioni della pretesa, tutte le deduzioni ed eccezioni intese a paralizzare i fatti estintivi e modificativi dedotti dall'opponente o le pretese avanzate da quest'ultimo in via riconvenzionale, e ad indicare i mezzi di prova a loro sostegno. Inoltre, quanto alla efficacia probatoria dei verbali ispettivi, si è ritenuto ( tra le tante Cass. n. 3525 del 22/02/2005) che "I verbali redatti dai funzionari degli enti previdenziali e assistenziali o dell'Ispettorato del lavoro fanno piena prova dei fatti che i funzionari stessi attestino avvenuti in loro presenza, mentre, per le altre circostanze di fatto che i verbalizzanti segnalino di avere accertato, il materiale probatorio è liberamente valutabile e apprezzabile dal giudice, il quale può anche considerarlo prova sufficiente delle circostanze riferite al pubblico ufficiale, qualora il loro specifico contenuto probatorio o il concorso d'altri elementi renda superfluo l'espletamento di ulteriori mezzi istruttori". In quel caso la S.C. aveva confermato la sentenza del giudice di merito, che aveva fondato il proprio convincimento sulle risultanze del verbale redatto dagli ispettori del lavoro, completo e dettagliato, al quale erano allegati due verbali ispettivi e numerose dichiarazioni rese dai lavoratori, e che era stato confermato in udienza da alcune testimonianze, tra le quali una resa da chi aveva effettuato le ispezioni e ricevuto le dichiarazioni

E’ legittimo il licenziamento per fatti commessi al di fuori del rapporto di lavoro?

Di regola, il lavoratore può essere licenziato quando, nell’ambito del rapporto di lavoro, pone in essere dei comportamenti che risultano incompatibili con la prosecuzione di tale rapporto, e che possono consistere, per esempio, in una grave insubordinazione nei confronti dei propri superiori piuttosto che nella sottrazione di materiali aziendali. In questo caso si parla di "giusta causa" di licenziamento, che sta appunto ad indicare una grave violazione, da parte del lavoratore, dei propri obblighi di diligenza e di fedeltà.

Peraltro, è prevista, dal nostro ordinamento, anche l’ipotesi del licenziamento per "giustificato motivo soggettivo". Con tale espressione si fa riferimento, più in generale, anche a comportamenti del lavoratore che, pur non realizzandosi nell’ambito dell’attività lavorativa, o comunque in connessione con essa, risultano comunque tali da compromettere il rapporto fiduciario che sta alla base di ogni rapporto di lavoro.

Per esempio, se il cassiere di una banca sottrae del denaro alla banca stessa, ci si troverà, ragionevolmente, in presenza di una giusta causa di licenziamento, ferma restando la necessità di valutare la gravità del comportamento (è diverso se il furto è di mille lire piuttosto che di un milione) e le eventuali giustificazioni del lavoratore. Se, invece, lo stesso cassiere dovesse essere sorpreso a rubare, per esempio, in un grande magazzino, al di fuori del proprio orario di lavoro o nel periodo di ferie, non ci si troverebbe in presenza di una giusta causa di licenziamento, dal momento che lo stesso non avrebbe violato alcun obbligo relativo al proprio rapporto di lavoro. Nondimeno, la banca potrebbe, fondatamente, non fidarsi più di una persona che, per le sue caratteristiche soggettive, risulterebbe non più idonea a svolgere il ruolo di responsabilità affidatale.

In definitiva, è vero che anche comportamenti esterni all’attività lavorativa possono avere un riflesso sul rapporto di lavoro; ciò, peraltro, solo nel caso in cui, per la gravità degli stessi e per il ruolo affidato al lavoratore, sia oggettivamente possibile dedurre, da tali comportamenti, il venir meno, in modo irreversibile, del rapporto di fiducia.

Se, per tornare all’esempio precedente, colui che è stato sorpreso a rubare in un supermercato svolgesse, invece che il ruolo di cassiere, mansioni che non lo pongono in contatto con denaro od altri beni aziendali, risulterebbe arduo sostenere che un fatto commesso al di fuori dell’attività lavorativa, magari per la prima volta, possa costituire una ragione sufficiente per privare una persona della propria occupazione ovvero, di norma, della propria unica fonte di sostentamento.

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L'Informalavoro dispone di uno staff collaborativo di consulenti fiscali, legali e del lavoro specializzati in specifici ambiti disciplinari di materia fiscale e del lavoro; si dispone di specialisti per :

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Antipatica al capo: rischio il licenziamento?


(Articolo pubblicato dal Dott. Bruno Olivieri su www.lavoratorio.it )

Nella ditta in cui lavoro, sono assunta a tempo indeterminato ma non vado d'accordo con uno dei miei capi, non gli sto molto simpatica e hanno già fatto due colloqui con due ragazze. Non riesco a capire se vogliono affiancarmi qualcuno o rimpiazzarmi; non mi hanno detto nulla. A queste condizioni posso aspettarmi un licenziamento?


La risposta di Jobob:
"Finora, abbiamo sempre declinato le domande di consulenza tecnica di diritto del lavoro, invitando i lettori a rivolgersi a patronati, sindacati o consulenti del lavoro. Da oggi, inizia invece una nuova collaborazione online con il dottor Bruno Olivieri, un giovane professionista che già da qualche tempo gestisce un blog specialistico dedicato a queste tematiche. Abbiamo esplicitamente richiesto al dottor Olivieri di fornire risposte il più possibile semplificate e comprensibili, cercando di fuggire i tecnicismi tipici della materia. Ecco, qui di seguito, la sua risposta alla domanda della nostra lettrice."

La risposta di Bruno Olivieri ( www.linformalavoroblogspot.com ):
"Innanzitutto bisogna dire che in un rapporto a tempo indeterminato condizione necessaria a legittimare un licenziamento è la sua comunicazione nei modi e nei tempi prescritti dal contratto nazionale di categoria. Quindi, senza aver ricevuto alcuna comunicazione scritta e senza aver firmato per ricevuta la stessa (se notificata come raccomandata a mano) o senza aver ricevuto la notifica a mezzo posta (tramite raccomandata con ricevuta di ritorno), nessuno può essere “legittimamente” licenziato.
Sul fatto di essere affiancati da un altro lavoratore, si tratta di una decisione che il datore di lavoro può prendere liberamente. Il rischio di essere “rimpiazzati”, invece, non è altrettanto scontato quando si è assunti con un contratto a tempo indeterminato: infatti, il datore di lavoro deve poter motivare il licenziamento per attestarne la legittimità. Nel caso presentato, la simpatia e l’antipatia sono questioni soggettive e dunque non pare esistano motivi oggettivi che possano giustificare il licenziamento.

Bruno Olivieri
www.linformalavoro.blogspot.com

Integrazioni salariali compatibilità con l’attività di lavoro autonomo o subordinato



Con la circolare n. 130/2010, l’INPS fornisce nuove istruzioni sulla compatibilità con l’attività di lavoro autonomo o subordinato ed integrazioni salariali.


Direzione Centrale
Prestazioni a Sostegno del Reddito
Direzione Centrale Pensioni



OGGETTO:

Integrazioni salariali. Compatibilità con l’attività di lavoro autonomo o subordinato e cumulabilità del relativo reddito. Regime dell’accredito dei contributi figurativi. Disposizioni particolari per il personale del settore trasporto aereo.
Chiarimenti in materia di utilizzo della quota di contribuzione IVS contenuta nel valore nominale dei “buoni lavoro” nei casi di compatibilità e cumulabilità delle integrazioni salariali e delle altre prestazioni a sostegno del reddito con le prestazioni di lavoro accessorio per gli anni 2009 e 2010.



SOMMARIO:

1. Premessa e quadro normativo.
2. Incompatibilità del nuovo rapporto di lavoro: cessazione del rapporto di lavoro che dava luogo all’integrazione salariale.
2.1. Disposizioni particolari per i lavoratori dei vettori aerei (articolo 2, comma 5-quater, del decreto-legge 28 agosto 2008, n. 134).
3. Compatibilità tra nuova attività di lavoro e integrazione salariale: cumulabilità totale dell’indennità con la remunerazione.
4. Compatibilità e cumulabilità delle integrazioni salariali con le prestazioni di lavoro accessorio nel limite massimo di 3000 euro per gli anni 2009 e 2010.
5. Cumulabilità parziale tra integrazione salariale e reddito derivante da una nuova attività.
5.1 Integrazioni salariali e redditi da lavoro a tempo pieno (occasionale o saltuario) e da lavoro part-time.
5.2 Integrazioni salariali e redditi da lavoro autonomo o simili.
6. Regime dell’accredito della contribuzione figurativa nelle ipotesi di compatibilità/cumulabilità totale e parziale.
6.1. Regime dell’accredito della contribuzione figurativa in caso di svolgimento di prestazioni di lavoro accessorio negli anni 2009 e 2010. Chiarimenti.
7. Prestazioni integrative a carico del fondo speciale per il sostegno del reddito e dell'occupazione e della riconversione e riqualificazione professionale del personale del settore del trasporto aereo.




La presente circolare sostituisce la n. 107 del 5 agosto 2010 riproponendone integralmente il contenuto integrato con la precisazione, riportata nel paragrafo 6, punto6.1, circa l’utilizzo della quota di contribuzione IVS contenuta nel valore nominale dei “buoni lavoro” nelle ipotesi in cui, per gli anni 2009 e 2010, la prestazione di lavoro accessorio sia compatibile e cumulabile con integrazioni salariali ed altre prestazioni a sostegno del reddito.

1. Premessa e quadro normativo.

Il caso in cui il lavoratore in cassa integrazione svolga altra attività di lavoro (subordinato o autonomo) remunerata, è regolato dal combinato disposto dell’articolo 3 del Decreto Legislativo Luogotenenziale 9 novembre 1945, n. 788 e dall’articolo 8, comma 4, del decreto-legge 21 marzo 1988, n. 86 (convertito con legge 20 maggio 1988 n. 160).
La prima norma stabilisce che l’integrazione salariale «non sarà (…) corrisposta a quei lavoratori che durante le giornate di riduzione del lavoro si dedichino ad altre attività remunerate»; l’articolo 8, comma 4, del D.L. n. 86/1988 precisa che «il lavoratore che svolga attività di lavoro autonomo o subordinato durante il periodo di integrazione salariale non ha diritto al trattamento per le giornate di lavoro effettuate».

Come già chiarito con circolare n. 179 del 12 dicembre 2002 (le cui disposizioni devono ritenersi superate dalla presente circolare), il combinato disposto delle norme citate non sancisce tuttavia una incompatibilità assoluta delle prestazioni integrative del salario con il reddito derivante dallo svolgimento di una attività lavorativa sia essa autonoma oppure subordinata.

Per un consolidato orientamento della Corte di Cassazione, l’articolo 3 del D.Lgs.Lgt. 788/1945 si interpreta «nel senso che lo svolgimento di attività lavorativa remunerata, sia essa subordinata od autonoma, durante il periodo di sospensione del lavoro con diritto all'integrazione salariale comporta non la perdita del diritto all'integrazione per l'intero periodo predetto ma solo una riduzione dell'integrazione medesima in proporzione ai proventi di quell'altra attività lavorativa. Ai fini dell'applicazione di tale principio – mentre in caso di attività lavorativa subordinata può presumersi l'equivalenza della retribuzione alla corrispondente quota d'integrazione salariale – in ipotesi, invece, di attività lavorativa autonoma grava sul lavoratore (al fine del riconoscimento del suo diritto a mantenere l'integrazione salariale per la differenza) l'onere di dimostrare che il compenso percepito per la detta attività è inferiore all'integrazione salariale stessa» (Cass. n. 12487 del 23/11/1992).

Resta comunque necessaria la comunicazione preventiva resa dal lavoratore alla sede provinciale dell’Istituto circa lo svolgimento dell’attività secondaria, come previsto al comma 5°, dell’art. 8 della L. 160/88, al fine di evitare la decadenza dal diritto alle prestazioni per tutto il periodo della concessione.

Allo scopo di chiarire ulteriormente il quadro, si riepilogano di seguito le circostanze in cui si può dar luogo:
- all’incompatibilità tra la nuova attività lavorativa e l’integrazione salariale e alla conseguente cessazione del rapporto di lavoro su cui è fondata;
- alla totale cumulabilità della remunerazione collegata alla nuova attività con l’integrazione salariale;
- ad una parziale cumulabilità dei redditi da lavoro con l’integrazione salariale.
2. Incompatibilità del nuovo rapporto di lavoro: cessazione del rapporto di lavoro che dava luogo all’integrazione salariale.

Si ha incompatibilità nel caso in cui il lavoratore beneficiario dell’integrazione salariale abbia iniziato un nuovo rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato. In questo caso, come affermato dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 195 del 1995), «il nuovo impiego a tempo pieno e senza prefissione di termine, alle dipendenze di un diverso datore di lavoro, comporta la risoluzione del rapporto precedente e, quindi, (…) la perdita del diritto al trattamento di integrazione salariale per cessazione del rapporto di lavoro che ne costituiva il fondamento».
2.1 Disposizioni particolari per i lavoratori dei vettori aerei (articolo 2, comma 5-quater, del decreto-legge 28 agosto 2008, n. 134).

Rispetto alla regola generale del venir meno del precedente rapporto di lavoro (e quindi del diritto all’integrazione salariale) in caso di stipula di un nuovo rapporto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato, la norma contenuta nell’articolo 2, comma 5-quater, del decreto-legge 28 agosto 2008, n. 134 (convertito, con modificazioni, dalla legge 27 ottobre 2008, n. 166) pone una parziale deroga, con esclusivo riguardo alle ipotesi di cassa integrazione guadagni straordinaria concessa al personale, anche navigante, dei vettori aerei e delle società da questi derivate a seguito di processi di riorganizzazione o trasformazioni societarie (ai sensi dell'articolo 1-bis del decreto-legge 5 ottobre 2004, n. 249, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 dicembre 2004, n. 291). In questi casi la norma prevede eccezionalmente che «i lavoratori in cassa integrazione guadagni straordinaria assunti a tempo indeterminato, licenziati per giustificato motivo oggettivo o a seguito delle procedure di cui agli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, hanno diritto a rientrare nel programma di cassa integrazione guadagni straordinaria e ad usufruire della relativa indennità per il periodo residuo del quadriennio». Va rilevato che, anche in questo caso il rapporto di lavoro da cui trae origine l’integrazione salariale cessa, anche se, in via eccezionale e nelle sole ipotesi previste dalla normativa, viene ripristinato al fine di consentire la fruizione dell’integrazione salariale nel residuo periodo inizialmente previsto.
Di conseguenza, nel corso del nuovo rapporto di lavoro non potrà darsi luogo a cumulabilità, neppure parziale, dell’integrazione salariale con relativo reddito.
A questa conclusione conducono due ordini di motivi: da una parte l’osservazione che la reviviscenza del vecchio rapporto di lavoro avvenga solo in alcuni casi di cessazione dal nuovo contratto (licenziamento per giustificato motivo oggettivo e procedure di cui agli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223); dall’altra il dato letterale riguardante l’effetto, che è quello di «rientrare nel programma di cassa integrazione guadagni straordinaria ed usufruire della relativa indennità» e non già quello di rientrare nel rapporto di lavoro precedente.
3. Compatibilità tra nuova attività di lavoro e integrazione salariale: cumulabilità totale dell’indennità con la remunerazione.

Si ha piena compatibilità tra attività di lavoro ed integrazione salariale, laddove la nuova attività di lavoro dipendente intrapresa, per la collocazione temporale in altre ore della giornata o in periodi diversi dell’anno, sarebbe stata comunque compatibile con l’attività lavorativa sospesa che ha dato luogo all’integrazione salariale.
In tali casi l’integrazione salariale è pienamente cumulabile con la remunerazione derivante dalla nuova attività lavorativa.
Quest’ipotesi ricorre nel caso in cui i due rapporti di lavoro siano part-time, sia orizzontale (con riduzione dell’orario ordinario giornaliero) e sia verticale (con prestazione del lavoro per intere giornate in periodi predeterminati). Del resto nell’ipotesi di part-time verticale l’integrazione salariale è dovuta soltanto nei periodi in cui sarebbe stata espletata l’attività lavorativa.
Da ultimo si segnala che si può avere compatibilità anche tra un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e uno part-time, purché le due attività siano tra loro comunque compatibili nel limite dell’orario massimo settimanale di lavoro.
4. Compatibilità e cumulabilità delle integrazioni salariali con le prestazioni di lavoro accessorio.

Come già illustrato dalla circolare n. 75 del 26 maggio 2009, l’art. 7-ter, comma 12, lettera b) del decreto legge n. 5/2009 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 33/2009), nel modificare l’art. 70 del D.Lgs. 10.9.2003 n. 276 sul lavoro accessorio, aggiunge il comma 1-bis, che recita: «in via sperimentale per il 2009, prestazioni di lavoro accessorio possono essere rese, in tutti i settori produttivi e nel limite massimo di 3.000 euro per anno solare, da percettori di prestazioni integrative del salario o con sostegno al reddito compatibilmente con quanto stabilito dall'articolo 19, comma 10, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2. L'INPS provvede a sottrarre dalla contribuzione figurativa relativa alle prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito gli accrediti contributivi derivanti dalle prestazioni di lavoro accessorio».

L’art. 2, comma 148, lett. g), L. 23.12.2009 n. 191 ha esteso la portata di tale disposizione anche all’anno 2010.
La suddetta norma – con efficacia quindi limitata agli anni 2009 e 2010 – consente ai lavoratori beneficiari di integrazioni salariali per sospensione o riduzione dell’attività lavorativa di effettuare lavoro accessorio in tutti i settori produttivi e per tutte le attività con il limite massimo di 3.000 euro per anno solare.
Il limite dei 3.000 euro (da intendersi al netto dei contributi previdenziali) è riferito al singolo lavoratore; pertanto va computato in relazione alle remunerazioni da lavoro accessorio che lo stesso percepisce nel corso dell’anno solare, sebbene legate a prestazioni effettuate nei confronti di diversi datori di lavoro.
Conseguentemente, per il solo caso di emolumenti da lavoro accessorio che rientrano nel limite dei 3.000 euro annui, l’interessato non sarà obbligato a dare alcuna comunicazione all’Istituto.

Le remunerazioni da lavoro accessorio che superino il limite dei 3.000 euro non sono integralmente cumulabili; ad esse dovrà essere applicata la disciplina ordinaria sulla compatibilità ed eventuale cumulabilità parziale della retribuzione Il lavoratore ha inoltre l’obbligo di presentare preventiva comunicazione all’Istituto. Nel caso di più contratti di lavoro accessorio stipulati nel corso dell’anno e retribuiti singolarmente per meno di 3.000 euro per anno solare, la comunicazione andrà resa prima che il compenso determini il superamento del predetto limite dei 3.000 euro se sommato agli altri redditi per lavoro accessorio.
5. Cumulabilità parziale tra integrazione salariale e reddito derivante da una nuova attività lavorativa

Al di fuori dai casi descritti ai punti da 2 a 4 potrà darsi luogo a cumulabilità parziale tra la remunerazione derivante da attività lavorativa e le integrazioni salariali.

In via generale l’integrazione salariale non è dovuta per le giornate nelle quali il lavoratore beneficiario si dedichi ad altre attività remunerate, di conseguenza il reddito derivante dalla nuova attività di lavoro non è normalmente cumulabile con l’integrazione salariale. In tali casi il trattamento di integrazione salariale verrà sospeso per le giornate nella quali è stata effettuata la nuova attività lavorativa.

Tuttavia, per consolidato orientamento giurisprudenziale, qualora il lavoratore dimostri che il compenso (o provento) per tale attività è inferiore all'integrazione stessa, avrà diritto ad una quota pari alla differenza tra l’intero importo dell’ integrazione salariale spettante e il reddito percepito.
5.1 Cumulabilità parziale tra le integrazioni salariali ed il reddito da lavoro subordinato: rapporto di lavoro a tempo determinato e contratto di lavoro part-time.

Nel caso in cui il beneficiario della integrazione salariale stipuli un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, tale contratto risulta compatibile con il diritto all’integrazione salariale. Se il reddito derivante dalla nuova attività lavorativa è inferiore all’integrazione, sarà possibile il cumulo parziale della stessa con il reddito, a concorrenza dell’importo totale della integrazione spettante.
Analogamente nel caso in cui il lavoratore – beneficiario di integrazione salariale rispetto ad un rapporto di lavoro a tempo pieno – stipuli un nuovo contratto di lavoro subordinato a tempo parziale (sia esso a tempo determinato o indeterminato), sarà possibile il cumulo parziale dell’integrazione salariale con il reddito derivante da tale attività anche se, tale attività - a differenza del caso contemplato al punto 3 - non sarebbe compatibile con il contratto di lavoro che ha dato luogo all’integrazione salariale, in quanto parzialmente sovrapponibile.

5.2 Cumulabilità parziale tra le integrazioni salariali ed il reddito da lavoro autonomo o simili.

Se il lavoratore beneficiario del trattamento di integrazione salariale intraprende una nuova attività di lavoro autonomo, non rileva il fatto che il lavoro sospeso sia a tempo parziale o a tempo pieno, né il tempo dedicato alla prestazione di lavoro autonomo e neanche il fatto che tale nuova attività non comporti una contestuale tutela previdenziale di natura obbligatoria: non sussiste alcuna presunzione circa la possibile equivalenza tra il provento di tale attività e la misura dell’integrazione salariale cui il lavoratore avrebbe avuto diritto.
Spetterà pertanto al lavoratore interessato dimostrare e documentare l’effettivo ammontare dei guadagni e la loro collocazione temporale al fine di consentire all’Istituto l’erogazione dell’eventuale quota differenziale di integrazione salariale.
Nel caso in cui l’ammontare dei redditi non sia agevolmente quantificabile o collocabile temporalmente, l’Istituto deve comunque sospendere l’erogazione delle integrazioni salariali al momento della comunicazione preventiva.

Si segnala che rientrano in tale ipotesi anche le somme percepite per incarichi pubblici elettivi o in virtù di un rapporto di servizio onorario con la Pubblica Amministrazione.

6. Regime dell’accredito della contribuzione figurativa nelle ipotesi di compatibilità/cumulabilità totale e parziale.

Si illustra il regime dell’accredito della contribuzione figurativa con riferimento alle diverse ipotesi di compatibilità e cumulabilità illustrate nella presente circolare.

Si osserva in premessa che nelle ipotesi di compatibilità tra la nuova attività di lavoro e l’integrazione salariale (di cui al precedente punto 3), la contribuzione per cassa integrazione guadagni e quella obbligatoria per l’attività effettivamente prestata si riferiscono a periodi temporalmente non coincidenti o comunque non sovrapposti, pertanto non si pongono particolari questioni e l’accredito della contribuzione figurativa collegato al godimento della prestazione di cassa integrazione sarà effettuato in base ai criteri generali.

Diversamente, qualora l’importo della prestazione di integrazione salariale stabilito debba essere proporzionalmente ridotto in conseguenza dello svolgimento di un'attività di lavoro, subordinato o autonomo (casi di incumulabilità relativa) l'accreditamento dei contributi figurativi dovrà essere effettuato in quota integrativa, in misura corrispondente alla quota retributiva pari alla differenza tra l'intera retribuzione presa a base per il calcolo dell'integrazione salariale e la retribuzione percepita in relazione all'attività svolta. In tale ipotesi la contribuzione obbligatoria relativa all'attività effettivamente svolta verrà accreditata nella gestione di competenza e darà luogo, laddove ne ricorrano le condizioni, alle prestazioni previste dall'ordinamento delle medesime gestioni.


6.1 Regime dell’accredito della contribuzione figurativa in caso di svolgimento di prestazioni di lavoro accessorio negli anni 2009 e 2010. Chiarimenti.

Per quanto riguarda, infine, le fattispecie di compatibilità e cumulabilità delle integrazioni salariali con le prestazioni di lavoro accessorio (di cui al precedente punto 4) e, in genere, di compatibilità e cumulabilità delle altre prestazioni a sostegno del reddito con le prestazioni di lavoro accessorio per gli anni 2009 e 2010, trova applicazione un diverso meccanismo. In tali casi, ai fini della corretta applicazione della norma di cui al comma 1bis dell’articolo 70 del d.lgs n. 276/2003, si rende necessario che la quota di contribuzione IVS (pari a 1,3 Euro per ogni buono lavoro del valore di 10 Euro) affluisca alla gestione a carico della quale è posto l’onere dell’accredito figurativo correlato alle prestazioni integrative o di sostegno al reddito, a parziale ristoro del relativo onere. Ne consegue che in tali casi la quota IVS predetta non dovrà essere accreditata sulla posizione contributiva del singolo lavoratore, a conferma ulteriore di quanto illustrato nel messaggio 12082 del 4 maggio 2010, e a scioglimento definitivo della riserva formulata nella circolare 88 del 9 luglio 2009, punto 4.


7. Prestazioni integrative a carico del Fondo speciale per il sostegno del reddito e dell'occupazione e della riconversione e riqualificazione professionale del personale del settore del trasporto aereo.

II Fondo Speciale per il sostegno del reddito e dell'occupazione e per la riqualificazione del personale del trasporto aereo, di cui all’articolo 1-ter del decreto legge n. 249/2004 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 291/2004) provvede all’erogazione di un’integrazione delle prestazioni corrisposte per effetto degli ammortizzatori sociali (CIGS, solidarietà, mobilità), tale da garantire che il trattamento complessivo sia pari all'80% della retribuzione lorda di riferimento.

Il Comitato Amministratore del Fondo, con delibera n. 22 del 16 marzo 2009, ha disciplinato i casi di prestazione di attività lavorativa da parte di lavoratori beneficiari delle prestazioni integrative del Fondo. In particolare ha previsto che:

la prestazione a carico del Fondo resti immutata nel caso in cui i proventi derivanti da una nuova attività lavorativa di tipo autonomo o la retribuzione derivante da un nuovo rapporto di lavoro dipendente, purché a tempo determinato, sia inferiore o pari al trattamento di integrazione salariale;
la prestazione a carico del Fondo venga ridotta in misura pari alla differenza tra i proventi/retribuzioni relativi alla nuova attività e l’integrazione salariale, nel caso in cui essi siano superiori al trattamento di integrazione salariale, purché inferiori all’80% della retribuzione di riferimento.


Da ultimo si precisa che la contribuzione figurativa spetta esclusivamente nel caso in cui residui almeno una parte del trattamento di integrazione salariale. Pertanto le disposizioni di cui al punto 6 si applicano soltanto ai casi in cui la retribuzione/il provento relativo ad una nuova attività da lavoro dipendente o autonomo sia inferiore alla misura dell’integrazione salariale, a nulla rilevando che il beneficiario percepisca una prestazione residua a carico del Fondo per il sostegno del reddito e dell'occupazione e per la riqualificazione del personale del trasporto aereo.





Il Direttore Generale
Nori

Illegittimità delle dimissioni in bianco


E' da considerarsi illegittima la pretesa del datore di lavoro di far sottoscrivere, fin dall'inizio del rapporto, una lettera di dimissioni senza data, da utilizzare poi, nel corso del rapporto, come mezzo di pressione e ricatto.
Talora alcuni datori di lavoro, ritenendo insufficiente il periodo di prova previsto dalla contrattazione collettiva, o comunque volendo mantenersi la possibilità di risolvere in qualsiasi momento il rapporto di lavoro, impongono, al lavoratore, come condizione per l'assunzione definitiva, la sottoscrizione di una lettera di dimissioni senza data, che quindi può essere poi utilizzata in qualsiasi momento, di fatto ponendo il lavoratore in una situazione di soggezione psicologica.
Si tratta di una procedura sicuramente illegittima, in quanto diretta ad eludere norme di legge imperative (e cioè inderogabili).
Tra queste rientra anche la disciplina del prova: il prova, nel corso del quale ciascuna delle parti può recedere dal rapporto di lavoro senza necessità di giusta causa o giustificato motivo e senza obbligo di preavviso, non può avere durata superiore a sei mesi (una durata inferiore può poi essere prevista dai contratti collettivi di categoria).

Il datore di lavoro propone le dimissioni in alternativa al licenziamento


In linea generale, a meno che non vengano versate cifre consistenti, non è mai conveniente rassegnare le dimissioni, ma è preferibile essere licenziati.
Infatti, nonostante le comune convinzione che il licenziamento sia più "infamante", le conseguenze tra le due ipotesi sono ben differenti.
Innanzitutto anche sul vecchio libretto di lavoro non veniva annotata la causa di cessazione del rapporto, ma solo ed esclusivamente la data di risoluzione. In secondo luogo, il licenziamento di regola determina il pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso, che varia secondo la qualifica e l’anzianità. Quel che più conta però è che il licenziamento può essere impugnato avanti il Giudice del lavoro, mentre le dimissioni, salvo casi eccezionali, no.
Questo significa la possibilità di far verificare al Giudice che effettivamente sussistessero le ragioni che hanno portato al licenziamento (che in molti casi si rivelano, al vaglio della Magistratura, insussistenti).
Nel caso in cui fosse esclusa la legittimità del licenziamento, al lavoratore spetterebbero 5 mensilità di retribuzione (nel caso di aziende di più di 15 dipendenti) oltre al diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.
In alternativa alla reintegrazione il dipendente può svolgere una particolare opzione (prevista dall’art.18 della Legge 300/1970, Statuto dei Lavoratori) in virtù della quale gli debbono essere versate altre 15 mensilità di retribuzione per la rinuncia alla reintegrazione.

Documentazione : Wikilabour

Cassazione: valido il licenziamento del lavoratore in malattia

E' valido il licenziamento per giusta causa anche se interviene guando il lavoratore è in malattia. La Cassazione (sent. 13596/2009) ha stabilito che, nel caso esaminato, il lavoratore chiedendo di essere sentita personalmente ma allo stesso tempo rifiutando di presentarsi a causa dello stato di malattia, ha introdotto un ostacolo formale all’adozione del provvedimento, dilazionando i tempi e precludendo l’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro. Così facendo il lavoratore incorre nella violazione della regola della buona fede, perché propone un’eccezione basata su di un fatto proprio, vale a dire addebita al datore di lavoro di avere accolto una sua istanza al solo scopo d’impedirgli d’irrogare il provvedimento. Pertanto, non può essere invocata l’applicabilità della norma collettiva sul termine del provvedimento di espulsione, in quanto è il lavoratore stesso ad aver dato causa alla presunta nullità del provvedimento.

Le dimissioni per giusta causa


Il lavoratore può rassegnare le dimissioni in tronco (cioè senza preavviso), quando si sia verificata una causa che non consenta la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto.
La giurisprudenza ha riconosciuto le ipotesi di ”giusta causa” facendo riferimento a gravi inadempimenti del datore nell’ambito del rapporto di lavoro (es. omessa corresponsione della retribuzione, omesso versamento dei contributi previdenziali, molestie sessuali, dequalificazione professionale).
In tal caso, proprio perché il recesso è stato determinato da un fatto colpevole del datore di lavoro, il lavoratore che receda per giusta causa conserva comunque il diritto a percepire l’indennità sostitutiva del mancato preavviso, nel caso si versi in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Tale indennità spetta al lavoratore a titolo di indennizzo per la mancata percezione delle retribuzioni per il periodo necessario al reperimento di una nuova occupazione, tenuto conto che l’interruzione immediata del rapporto è, in realtà, imputabile al datore di lavoro.
Nel caso in cui il datore di lavoro neghi l’esistenza di una giusta causa alla base del recesso del lavoratore, e si rifiuti così di versare l’indennità sostitutiva del preavviso, il lavoratore potrà agire in giudizio per chiedere l’accertamento della giusta causa delle dimissioni, e vedersi riconosciuto il diritto a percepire tale indennità, oltre che per la restituzione dell’importo eventualmente trattenuto a titolo di mancato preavviso.
Il lavoratore deve consegnare o inviare con tempestività la lettera con cui comunica la sua volontà di dimettersi per giusta causa, e cioè subito dopo il verificarsi della causa che ha reso impossibile la prosecuzione del rapporto.
Tale comunicazione non necessita di specifiche formule, ma deve comunque fare riferimento alla giusta causa che ha determinato il recesso.

Fonte documentazione: Wikilabour et alter

Indennità sostitutiva del preavviso nella tutela obbligatoria del licenziamento

La Cassazione ha affrontato il tema della indennità sostitutiva del preavviso nelle ipotesi di tutela reale ed obbligatoria del lavoratore.
Ricordiamo in via preliminare che la tutela reale regolata dall'articolo 18 dello Stato dei lavoratori prevede la reintegrazione nel posto di lavoro qualora il giudice del lavoro accerti l'illegittimità del licenziamento. Questo tipo di tutela si applica alle aziende con più di 15 dipendenti in ciascuna unità produttiva; oppure con più di 15 dipendenti nello stesso Comune anche in unità produttive più piccole; più di 60 dipendenti ovunque siano ubicate le singole unità produttive; datori di lavoro agricolo con più di 5 dipendenti in ciascuna unità produttiva.
La tutela obbligatoria, viceversa, consente al datore di lavoro, in caso di accertamento dell'illegittimità del licenziamento, di scegliere tra la riassunzione del lavoratore e il pagamento di una indennità.


Cassazione.

Il licenziamento comporta sempre a carico del datore di lavoro l'obbligo del preavviso o dell'indennità sostitutiva, esclusa l'ipotesi di sussistenza di giusta causa per il recesso in tronco e in caso di risoluzione consensuale del rapporto, ove le parti si accordino in tal senso.
Tuttavia - prosegue la Cassazione - mentre nell'ambito della tutela reale il recesso ingiustificato non è idoneo ad estinguere il rapporto di lavoro, che continua provocando solo l'interruzione di fatto della prestazione lavorativa, viceversa nell'area della tutela obbligatoria il licenziamento, ancorché privo di giustificazione è idoneo ad estinguere il rapporto giacché l'articolo 8 Legge 604/1966 fa riferimento all'obbligo di "riassumere" il lavoratore.

In caso di licenziamento illegittimo, mentre in relazione alla tutela reale - in forza dell'efficacia ripristinatoria del rapporto attribuita dalla legge - la indennità sostitutiva del preavviso è incompatibile con la reintegra, perché non si ha interruzione del rapporto, viceversa, stante il carattere meramente risarcitorio accordato dalla tutela obbligatoria, il diritto all'indennità sostitutiva del preavviso sorge per il fatto che il rapporto è risolto.

In quest'ultimo caso, l'indennità prevista dall'articolo 8 della legge n. 604 del 1966 va a compensare i danni derivanti dalla mancanza di giusta causa e giustificato motivo, mentre l'indennità sostitutiva del preavviso va a compensare il fatto che il recesso, oltre che illegittimo, è stato intimato in tronco; non vi è dunque, incompatibilità tra le due prestazioni, viceversa sarebbe incongruo sanzionare nello stesso modo due licenziamenti, entrambi privi di giustificazione, ma l'uno intimato con preavviso e l'altro invece intimato in tronco.
La Cassazione ha così proseguito dichiarando espressamente di non condividere la propria precedente pronuncia (Sentenza n. 1404 dell'8 febbraio 2000) che aveva escluso in un caso analogo l'indennità sostitutiva del preavviso.

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 8 giugno 2006, n. 13380: Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Risarcimento del danno - Tutela obbligatoria - Indennità di preavviso - compatibilità)

SANZIONI AMMINISTRATIVE IN MATERIA DI LAVORO

La Direzione generale per l’attività ispettiva del Ministero del Lavoro, nel pieno esercizio dei poteri istituzionalmente ad essa conferiti dal D.Lgs. n. 124 del 2004, è intervenuta per dettare le linee guida di applicazione di una serie di sanzioni amministrative e penali, rivolgendosi direttamente agli uffici periferici, rispettivamente agli organismi di vigilanza (servizi e settori ispezione del lavoro delle Direzioni provinciali e regionali), Lettera circolare n. 5407 del 18 aprile 2008, e agli uffici affari legali e contenzioso, Lettera circolare n. 5831 del 2 maggio 2008, invitando espressamente il personale ispettivo ad uniformarsi alle indicazioni operative (che superano tutte le precedenti istruzioni) fornite "al fine di evitare comportamenti non omogenei sul territorio nazionale".


Unità e pluralità di illeciti amministrativi

La prima questione attiene alle ipotesi sanzionatorie connesse alle fattispecie nelle quali l’adempimento richiesto al datore di lavoro interessa una pluralità di lavoratori, singolarmente considerati, al fine di valutare se l’inosservanza debba essere intesa con riferimento a plurime condotte illecite ovvero ad una sola condotta unitariamente esaminata.
Si tratta, in particolare, degli illeciti amministrativi relativi ai libri obbligatori di lavoro (matricola e paga - sezione presenze, ma anche registro dell’orario di lavoro dei lavoratori mobili), alla consegna periodica del prospetto di paga e alle comunicazioni obbligatorie previste per il collocamento ordinario.
La premessa posta a fondamento dell’innovativa posizione interpretativa riguarda l’osservazione generalizzata sul sistema sanzionatorio in materia di lavoro che, secondo la lettura offerta dai vertici tecnici ministeriali (i quali pure ipotizzano eccezioni alla regola ora individuata), sia nel settore penale che in quello amministrativo, collega la tutela dei lavoratori con riferimento "a ciascun lavoratore", pertanto le condotte inosservanti del datore di lavoro devono normalmente "intendersi come distinte ed astrattamente indipendenti l'una dall'altra, ancorché poste in essere in un medesimo contesto temporale".
Sulla scorta di tale assunto ermeneutico vengono forniti specifici criteri per la coerente e corretta applicazione della normativa sanzionatoria, con la dichiarata (condivisibile e mai superflua) finalità "di uniformare il comportamento di tutto il personale ispettivo".


Registrazioni sul libro matricola

La violazione dell’art. 20, comma 1, n. 1 (obblighi di tenuta e di registrazione), e dell’art. 26, comma 1 (modalità di registrazione e scritturazione), del D.P.R. n. 1124 del 1965 viene letta evidenziando il riferimento alla globalità dell’obbligo di effettuare le registrazioni sul libro matricola relativamente a "tutti i prestatori d’opera" (compresi ovviamente lavoratori subordinati, ma anche collaboratori coordinati e continuativi, lavoratori a progetto, collaboratori coordinati occasionali, soci che prestano lavoro manuale o sovrintendono al lavoro altrui, associati in partecipazione e prestatori d'opera nell'impresa familiare), riferendosi l’obbligatoria registrazione ai dati di "ciascun prestatore d'opera" da trascriversi "prima dell'ammissione al lavoro".
Ne consegue, secondo la lettura ministeriale, che il datore di lavoro incorrerà in una specifica violazione degli obblighi posti dalle disposizioni richiamate in caso di:

omessa registrazione del lavoratore prima dell’inizio della prestazione lavorativa, commettendo tanti illeciti quanti sono i lavoratori interessati;
scritturazioni incomplete o inesatte, commettendo tanti illeciti quanti sono i lavoratori interessati.

Per quanto la norma sanzionatoria, contenuta nell’art. 195 del medesimo DPR n. 1124/1965, non faccia riferimento ai singoli destinatari della tutela, riferendosi astrattamente e genericamente alla violazione purché sia degli obblighi incombenti sul datore di lavoro, il Ministero del Lavoro sceglie la strada di una lettura estensiva del dato normativo punitivo.
D’altro canto, vista la presa di coscienza dell’irrigidimento e dell’inasprimento sanzionatorio determinato dalla lettera circolare del 18 aprile 2008, nel medesimo pronunciamento ministeriale si rinviene il richiamo al personale ispettivo riguardo alla impossibilità di procedere a contestare o notificare (art. 14, legge n. 689 del 1981) le omesse o inesatte registrazioni rispetto alle quali risulti scaduto, al momento dell’accertamento ispettivo, il termine per adempiere agli obblighi contributivi (periodo di paga scaduto), in virtù della corretta applicazione dell’art. 116, comma 12, della legge n. 388 del 2000, che ha abolito le violazioni in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie comunque connesse ad omissioni previdenziali.
Pertanto gli ispettori del lavoro dovranno procedere a sanzionare le omesse o inesatte registrazioni sul libro matricola, quando all’atto dell’ispezione non è ancora scaduto il periodo di paga (e di adempimento contributivo) ovvero quando tutti gli adempimenti di tipo previdenziale sono stati effettuati, applicando tante sanzioni quanti sono i lavoratori interessati previa adozione dell’atto di diffida obbligatoria (condizione di procedibilità ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. n. 124 del 2004).


Registrazioni sul libro presenze

Analoga lettura viene offerta dalla Lettera circolare n. 5407/2008 con riguardo agli obblighi di registrazione sul libro paga – sezione presenze, così come scaturenti dall’art. 20, comma 1, n. 2), del DPR n. 1124/1965, dovendosi considerare adempiuto l’obbligo datoriale di scritturazione con riferimento a "ogni dipendente" per il quale venga registrato l’effettivo orario di lavoro effettuato il giorno antecedente (o nel diverso e più ampio arco temporale, previsto dall’art. 25, comma 2).
Anche qui, secondo il révirement ministeriale, la sanzione deve essere applicata con riferimento alla pluralità degli illeciti commessi dal datore di lavoro che devono essere constatati, contestati e sanzionati (sempre previa attivazione della procedura di diffida amministrativa) con riferimento al numero dei lavoratori oggetto delle omesse o inesatte registrazioni, sempre ché al momento dell’ispezione non sia scaduto il termine per adempiere agli obblighi contributivi ovvero non vi siano inadempienze previdenziali per le omesse o inesatte registrazioni commesse in epoca anteriore.


Prospetti di paga

Viene ricondotta alla nuova logica ispettiva e punitiva anche la violazione degli artt. 1 e 3 della legge n. 4 del 1953 con riguardo all’obbligo per il datore di lavoro di consegnare all’atto della corresponsione della retribuzione un prospetto di paga contenente i dati esatti riferiti alla prestazione lavorativa alla quale si riferisce.
In tal caso, tuttavia, lo stesso legislatore aveva previsto la ricorrenza della pluralità di illeciti punendo il datore di lavoro (a differenza di quanto stabilito per i libri obbligatori dal DPR n. 1124/1965) per ogni omessa o ritardata consegna del prospetto di paga ovvero di consegna di un prospetto di paga in cui manchino o siano riportate in modo inesatto talune registrazioni con riferimento a ciascun lavoratore, in tal senso esplicitamente l’ipotesi di illecito amministrativo sancita dall’art. 5 della legge n. 4 del 1953.
Ma i chiarimenti ministeriali estendono, inopinatamente, anche ai lavoratori parasubordinati l’illecito di cui trattasi, in mancanza di qualsiasi previsione normativa espressa, mancando qualsiasi richiamo agli obblighi della legge del 1953 nel D.Lgs. n. 38 del 2000 che ha previsto l’elaborazione del cedolino paga anche per i collaboratori coordinati e continuativi.
Sia che il lavoratore sia un dipendente, sia che sia un parasubordinato, secondo la lettura ministeriale il datore di lavoro commetterà tanti illeciti quanti sono i lavoratori interessati dalla omessa consegna del prospetto di paga o dalla consegna tardiva ovvero anche dalla incompletezza o inesattezza delle scritturazioni, "di norma per ogni mese in cui si verifica detta omissione o incompletezza".
Salvo poi precisare che quando il medesimo prospetto paga venga consegnato tardivamente e incompleto o inesatto si avrà un solo illecito con la conseguente applicazione di una sola sanzione.
Viene sempre fatta salva la preventiva adozione della diffida obbligatoria.


Registro dell’orario di lavoro nell’autotrasporto

Le regole dettate per il libro presenze vengono estese anche al registro dell’orario di lavoro nell’autotrasporto (art. 8 del D.Lgs. n. 234 del 2007), dovendosi sanzionare tanti illeciti quanti sono i lavoratori ai quali si riferiscono le omesse o errate registrazioni, senza attentamente considerare la lettera dell’art. 9 del medesimo decreto legislativo che laddove ha inteso collegare la punizione del datore di lavoro al numero dei lavoratori interessati lo ha espressamente fatto (comma 1, per ogni lavoratore e per ciascun periodo cui si riferisce la violazione, comma 4, per ogni lavoratore e per ciascuna giornata) mentre nulla del genere è previsto nel comma 5 che sanziona la violazione delle disposizioni in materia di registro dell’orario di lavoro.


Comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro

Correttamente viene poi precisato che la violazione dell’art. 21, comma 1, della legge n. 264 del 1949, nel testo sostituito dall’art. 6, comma 3, del D.Lgs. n. 297 del 2002, a seguito dell’art. 1, comma 1181, della legge n. 296 del 2006, relativa alla omessa o alla tardiva comunicazione della cessazione del rapporto di lavoro (a tempo indeterminato e cessato in data diversa da quella comunicata al momento dell’assunzione), è "materialmente e giuridicamente possibile anche nell'ipotesi in cui il datore di lavoro abbia omesso di effettuare la comunicazione preventiva di instaurazione del rapporto di lavoro"; conseguenza ne è che l’omessa comunicazione di cessazione deve essere autonomamente sanzionata per la violazione di un distinto e autonomo precetto normativo.


Illecito continuato: ma conviene?

Con la Lettera circolare n. 5831 del 2 maggio 2008, peraltro, la stessa Direzione generale per l’attività ispettiva si rivolge, come detto più sopra, agli uffici affari legali e contenzioso delle Direzioni regionali e provinciali del lavoro, affinché procedano ad applicare l’art. 8 della legge n. 689 del 1981 con riferimento alle sanzioni irrogate dagli ispettori e dagli accertatori del lavoro per le violazioni relative alle registrazioni sui libri di matricola e di paga-sezione presenze secondo le indicazioni della lettera circolare del 18 aprile 2008.
Gli uffici legali, in sede di emissione della ordinanza-ingiunzione conclusiva del procedimento ispettivo e sanzionatorio, ai sensi dell’art. 18 della legge n. 689 del 1981, dovranno tenere conto della previsione di cui all’art. 8 della stessa legge che prevede l’applicazione della "sanzione prevista per la violazione più grave, aumentata sino al triplo" per il datore di lavoro che "con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno posto in essere in violazione di norme che stabiliscono sanzioni amministrative, commette, anche in tempi diversi, più violazioni della stessa o di diverse norme di legge in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie".
In ragione della dichiarata riferibilità delle disposizioni riguardanti i libri obbligatori di cui al DPR n. 1124 del 1965 alla materia della previdenziale, con riferimento ad accertamenti riferiti ad una pluralità di lavoratori, la lettera circolare ministeriale invita ad applicare la sanzione del triplo in ragione della ritenuta continuità dell’illecito amministrativo.
D’altronde, poiché la Suprema Corte ha chiarito che il riferimento ai fini del calcolo deve essere operato con riguardo alla "sanzione edittale prevista per la violazione più grave, aumentata fino al triplo" (Cass. civ., sez. lav., 8 marzo 2005 n. 4970), non v’è dubbio che risulterà di gran lunga più conveniente pagare la sanzione ridottissima conseguente all’adozione della diffida amministrativa e all’ottemperanza alla stessa, che non invocare l’applicazione dell’art. 8, comma 2, della legge n. 689 del 1981: a mero titolo di esempio, si pensi alle omesse registrazioni sul libro presenze riferite a 6 dipendenti: a seguito di ottemperanza alla diffida il datore di lavoro pagherebbe 750 euro (125 x 6), mentre applicando l’art. 8 la somma arriverebbe a 2310 euro (770 x 3, la sanzione edittale aumentata fino al triplo).


Pluralità di contravvenzioni e prescrizione obbligatoria

Da ultimo, la lettera circolare n. 5407/2008 estende il ragionamento operato per gli illeciti amministrativi anche alle contravvenzioni, rilevando in primo luogo che "le fattispecie contravvenzionali più ricorrenti in materia di lavoro", riferite alla tutela dei soggetti passivi specificamente determinati (ad es. lavoratrici madri, minori, lavoratori notturni), "sono da riferirsi a ciascun lavoratore e, pertanto, le relative condotte datoriali debbono intendersi come distinte ed astrattamente indipendenti l'una dall'altra, ancorché poste in essere in un medesimo contesto temporale".
Ne consegue che gli ispettori del lavoro sono chiamati ad adottare una pluralità di prescrizioni, riferite a ciascuna contravvenzione posta in essere, con riguardo a ciascun lavoratore cui si riferisca la violazione, sebbene, in considerazione di "evidenti ragioni di economia procedimentale", le singole prescrizioni potranno essere racchiuse in un unico provvedimento, riferito alla generalità dei reati rilevati e accertati, specificando, ovviamente, la norma violata, la pena correlata, i dati anagrafici del lavoratore o della lavoratrice interessata e la condona che viene prescritta.
In caso di ottemperanza alla prescrizione e di verifica della condotta sanante posta in essere, l’ispettore dovrà procedere correttamente al calcolo dell’importo sanzionatorio previsto in via amministrativa ai fini dell’estinzione dei reati che sarà pari a un quarto del massimo edittale della pena pecuniaria dell’ammenda "riferito a ciascun lavoratore interessato".
D’altro canto, secondo i chiarimenti ministeriali l’essere destinatario di un unico atto contenente tutte le prescrizioni impartite non impedisce al datore di lavoro di "procedere alla regolarizzazione di una parte dei lavoratori interessati", ferma restando l’ammissione al pagamento della sanzione in via amministrativa soltanto per le prescrizioni ottemperate.

Fonte: Pierluigi Rausei - Centro Studi Attività Ispettiva del Ministero del lavoro e della previdenza sociale - Docente di Diritto sanzionatorio del lavoro nell'Università di Modena e Reggio Emilia

Lavoro nel turismo, il vademecum del ministero con le indicazioni operative



Dall’apprendistato all’intermittente, dall’accessorio ai tirocini, tutte le particolarità del settore.

Gestione del rapporto di lavoro nel settore del turismo

Con la circolare n. 34/2010 del Ministero del lavoro, vengono fornite indicazioni operative relative alle problematiche e alla gestione del rapporto di lavoro nel settore del turismo.
Quello turistico rappresenta un settore del tutto peculiare ed è caratterizzato da una forte variabilità sul territorio e da stagionalità che ha ritenuto necessaria una attenta disamina degli istituti lavoristici.
La Circolare chiarisce le modalità di utilizzo delle tipologie contrattuali che maggiormente possono contribuire allo sviluppo del settore (apprendistato, lavoro intermittente, lavoro occasionale accessorio e il lavoro a tempo determinato) ed illustra il corretto utilizzo dell’appalto e degli strumenti di incentivazione del lavoro, come la detassazione del salario di produttività .
Infine, richiamando i contenuti del Piano triennale per il lavoro liberare il lavoro per liberare i lavori adottato dal Consiglio dei Ministri il 30 luglio 2010, la Circolare ribadisce l’importanza dell’azione di vigilanza svolta delle varie Direzioni provinciali del lavoro con l’obiettivo di combattere le peggiori forme di irregolarità e di sfruttamento.

Circolare n. 34 del 29 settembre 2010

Decisioni della magistratura sul tentativo obbligatorio di conciliazione (2)

-Il provvedimento di estinzione del processo, emesso dal giudice che opera come giudice unico nel caso in cui il processo non sia stato riassunto nel termine assegnato per l'espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione, avendo carattere definitorio della controversia ha natura sostanziale di sentenza; di conseguenza non è ammissibile l'impugnazione di tale provvedimento mediante reclamo ex art. 178 c.p.c., dovendo lo stesso ritenersi impugnabile con l'atto di appello (Trib. Parma 17 gennaio 2000, pres. Federico, est. Brusati, in D&L 2000, 525, n. Manassero, Ricorso per decreto ingiuntivo e tentativo obbligatorio di conciliazione)
-Qualora il mancato esperimento del tentativo di conciliazione sia ascrivibile al rifiuto dei componenti della Commissione di tentare la conciliazione della controversia (nella fattispecie, per asserita incompetenza per materia) e sia decorso il termine di cui all'art. 410 bis c.p.c., il tentativo è da ritenersi espletato e la domanda giudiziale non può ritenersi improcedibile (Trib. Milano 14 dicembre 1999 (ord.), est. Marasco, in D&L 2000, 526, n. Manassero, Ricorso per decreto ingiuntivo e tentativo obbligatorio di conciliazione)
-La mancata comunicazione della richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 410 c.p.c. al datore di lavoro non determina l'improcedibilità della domanda (Trib. Milano 27 ottobre 1999 (ord.), est. Porcelli, in D&L 2000, 254)
La richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 410 c.p.c. può essere effettuata anche personalmente dal difensore che sia munito di procura conferita anche solo verbalmente (Trib. Milano 10 maggio 1999, est. Atanasio, in D&L 2000, 255)
-La richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 410 c.p.c. non costituisce impugnazione del licenziamento ex art. 6 L. 15/7/66 n. 604, se non sia sottoscritta personalmente dal lavoratore e non sia comunicata anche al datore di lavoro (Trib. Milano 10 maggio 1999, est. Atanasio, in D&L 2000, 255)
-E’ procedibile la domanda proposta mediante ricorso in riassunzione prima della decorrenza del termine di 60 giorni dalla richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dal D.Lgs. 31/3/98 n. 80, nel caso in cui il rispetto di tale termine comporti la decadenza dal termine di 30 giorni per la riassunzione in giudizio previsto dall’art. 669 octies c.p.c., con la conseguente perdita di efficacia del provvedimento cautelare (Pret. Milano 30/4/99, est. Vitali, in D&L 1999, 716)
-La convocazione avanti alla competente commissione di conciliazione, all’esito della richiesta di svolgimento del tentativo obbligatorio di conciliazione contenente la specificazione delle rivendicazioni avanzate, costituisce una vera e propria messa in mora, valutabile ex art. 2943 c. 4 c.c., idoena a interrompere la prescrizione. (Cass. 16/3/2009 n. 6336, Pres. Ianniruberto Est. Stile, in Orient. Giur. Lav. 2009, 84)
-Ai fini di impedire la decadenza dall'impugnazione del recesso datoriale, è sufficiente che entro il termine dei 60 giorni il lavoratore depositi la richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione presso l'Ufficio del lavoro, non rilevando a tal fine la data diversa e successiva, incontrollabile per il lavoratore, alla quale la richiesta sarà trasmessa d'ufficio al datore di lavoro. (Cass. 19/6/2006 n. 14087, Pres. Sciarelli Est. Di Nubila, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Andrea Pardini, "Osservazioni darwiniane sulle mutazioni giurisprudenziali in tema di tentativo di conciliazione e termine di decadenza per l'impugnazione del licenziamento", 188)
-La mera presentazione della richiesta di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro, in assenza della sua comunicazione al datore di lavoro, non può avere gli effetti interruttivi della prescrizione indicati dall'art. 410 c.p.c., poichè quest'ultimo riconnette esplicitamente detti effetti alla "comunicazione" dell'atto alla controparte, e non già alla sua "presentazione" alla Commissione di conciliazione. Per lo stesso motivo il lavoratore che abbia interesse a ottenere una pronta efficacia sospensiva della sua richiesta del tentativo di conciliazione sul termine di decadenza per l'impugnazione del licenziamento ha l'onere di provvedere a notificare tale richiesta al datore di lavoro, senza attendere la comunicazione dell'ufficio. (Cass. 15/5/2006 n. 11116, Pres. Mileo Est. D'Agostino, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Andrea Pardini, "Osservazioni darwiniane sulle mutazioni giurisprudenziali in tema di tentativo di conciliazione e termine di decadenza per l'impugnazione del licenziamento", 188)
-L'art. 410, secondo comma, c.p.c. intende distinguere e chiaramente - come si evince dal suo inequivoco tenore letterale - gli effetti prodotti dal tentativo obbligatorio di conciliazione ai fini dell'interruzione della prescrizione dalle conseguenze dallo stesso scaturenti in riferimento ai termini decadenziali. La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo produce un effetto interruttivo istantaneo della prescrizione e non anche un effetto interruttivo-sospensivo, cioè perdurante per tutto il termine indicato dal secondo comma, ultima parte, dell'art. 410 c.p.c. Quest'ultimo effetto è ricollegato dal legislatore, attraverso il combinato disposto degli artt. 2943 e 2945 c.c., solo all'atto introduttivo del giudizio ordinario e del giudizio arbitrale. (Cass. 4/4/2006 n. 13046, Pres. Sciarelli Est. Vidiri, in riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Elmelinda Mercuro, "Gli effetti della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione sulla prescrizione", 200)
-Il mancato espletamento del tentativo di conciliazione non preclude la concessione dei provvedimenti speciali d’urgenza e di quelli presentati al capo III del titolo I del libro IV, tra cui appunto l’ordinanza ex art. 700 c.p.c., a prescindere dal fatto che si tratti di provvedimenti richiesti ante causam o nel corso della causa, in quanto tali provvedimenti possono comunque essere adottati, anche se il giudizio di merito, eventualmente pendente, debba essere sospeso a causa del mancato preventivo espletamento del tentativo di conciliazione. (Trib. Roma 9/6/2004, Pres. Cortesani Est. Luna, in Lav. nella giur. 2005, 93)
La richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 410 c.p.c. produce gli effetti interruttivi della prescrizione e sospensivi di ogni decadenza anche se la relativa comunicazione viene portata a conoscenza della sola direzione del lavoro e non anche del datore di lavoro (Trib. Milano 10 maggio 1999, est. Atanasio, in D&L 2000, 255)
-La richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 410 c.p.c. comporta la sospensione del termine ex art. 6 L. 15/7/66 n. 604 per l'impugnazione del licenziamento (Trib. Milano 10 maggio 1999, est. Atanasio, in D&L 2000, 255)

FONTE: Wikilabour

Decisioni della magistratura sul tentativo obbligatorio di conciliazione (1)

-Qualora il contenuto di un verbale di conciliazione giudiziale sia controverso, esso va interpretato sulla base della volontà espressa dalle parti. In particolare, le regole ermeneutiche da seguire sono quelle indicate dagli artt. 1362 ss. c.c. In particolare nell'interpretare il verbale di conciliazione si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e si deve effettuare un'interpretazione complessiva delle clausole, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell'atto. (Trib. Taranto 27/1/2009, dott. Magazzino, in Lav. nella giur. 2009, 415)
-Qualora il ricorso introduttivo debba essere notificato anche a un controinteressato, il giudizio è comunque procedibile anche qualora il precedente tentativo di conciliazione sia stato esperito solo nei confronti del convenuto principale, giacchè il controinteressato non potrebbe comunque disporre, in sede conciliativa, della controversia. (Trib. Napoli 10/1/2007, Est. Simeoli, in D&L 2007, 829)
-L’espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall’art. 410 c.p.c. non deve precedere la domanda che, pur inerente ad uno dei rapporti indicati dall’art. 409 c.p.c., sia proposta non in via principale bensì come riconvenzionale. (Trib. Ivrea 22/12/2004, ord., Giud. Morlini, in Giur. It 2005, 1684)
-Nel rito del lavoro l’espletamento del libero interrogatorio delle parti e del tentativo di conciliazione, pur essendo obbligatorio, non è previsto a pena di nullità, restando affidato al potere discrezionale del giudice di merito di valutare, anche in relazione agli assunti delle parti, se tale espletamento si configuri di qualche potenziale utilità, o sotto il profilo del buon esito del tentativo o al fine di acquisire elementi di convincimento per la decisione; ne consegue che l’omissione di uno di tali adempimenti da parte del giudice non incide sulla validità dello svolgimento del rapporto processuale, restando ininfluente – e di conseguenza non denunciabile in sede di legittimità – la mancata considerazione dell’omissione stessa, ove lamentata in sede di appello, da parte del giudice del gravame. (Cass. 18/8/2004 n. 16141, Pres. Mattone Rel. Curcuruto, in Lav. nella giur. 2005, 180)
-Nelle controversie di lavoro, la questione della procedibilità della domanda giudiziaria il relazione al preventivo espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione è sottratta alla disponibilità delle parti e rimessa al potere – dovere del giudice di merito, da esercitarsi, ai sensi del secondo comma dell’art. 443 c.p.c., solo nella prima udienza di discussione, sicchè ove la improcedibilità, ancorchè segnalata, non venga rilevata dal giudice entro detto termine e non sia stato fissato il termine perentorio per la richiesta del tentativo, l’azione giudiziaria prosegue, in ossequio al principio di speditezza di cui agli artt. 24 e 111, secondo comma, Cost., e la questione stessa non può essere riproposta nei successivi gradi del giudizio. (Cass. 19/7/2004 n. 13394, Pres. Senese Rel. Balletti, in Lav. nella giur. 2005, con commento di Gianluigi Girardi, 135)
Ai fini del compimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, previsto dall'art. 410 c.p.c., è sufficiente l'inoltro della relativa richiesta alla competente commissione di conciliazione. (Cass. 21/1/2004 n. 967, Pres. Sciarelli Rel. Curcuruto, in D&L 2004, 453)
-L'obbligo di proporre il tentativo di conciliazione a pena di improcedibilità vale solo per il processo celebrato davanti all'autorità giudiziaria, ma non per il procedimento di conciliazione dinanzi al collegio arbitrale. (Trib. Firenze 21/10/2003, Est. Bazzoffi, in D&L 2004, 458)
-È invalido ed inidoneo a produrre gli effetti di cui all'art. 2113 c.c. il verbale di conciliazione in sede sindacale sottoscritto in assenza del conciliatore e senza il rispetto dei requisiti e delle procedure stabiliti dal contratto collettivo in forza del quale il conciliatore trae i suoi poteri per il rinvio dell'art. 410 c.p.c. (nel caso di specie che mancavano tra le altre cose la presenza e l'assistenza dell'associazione datoriale, nonché l'assistenza del sindacato d'appartenenza della lavoratrice, così come previsti dal Ccnl commercio). L'associazione non riconosciuta non si estingue fino a quando vi siano rapporti giuridici pendenti di cui la stessa sia titolare. A definire tali rapporti restano in carica, eventualmente in regime di prorogatio, gli organi ordinari. (Trib. Milano 26/9/2002, Est. Frattin, in D&L 2003, 192, con nota di Monica Rota, "Le associazioni non riconosciute: un particolare caso di immortalità giuridica" e nota di Silvia Bochese, "Inerenza al ciclo produttivo del servizio di trasporto ex art. 3 L. 1369/1960")
-L'espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione prescritto dall'art. 410 c.p.c. non deve precedere la domanda che, pur inerente a uno dei rapporti indicati nell'art. 409 c.p.c., sia proposta non in via principale bensì come riconvenzionale o mediante chiamata di terzo in causa: in questi casi va perciò respinta l'eccezione di improcedibilità proposta ai sensi dell'art. 412 bis c.p.c. (Trib. Taranto 18/4/2002, ordinanza, Giud. Cavallone, in Giur. italiana 2003, 78)
In ipotesi di chiamata in causa di terzo, lo svolgimento del tentativo obbligatorio di conciliazione si pone come condizione di procedibilità solo quando la domanda svolta nei suoi confronti attiene ai rapporti di cui all'art. 409 c.p.c. e non anche quando tale domanda viene trattata con il rito del lavoro per mere ragioni di connessione (nel caso, in controversia promossa dal lavoratore infortunato per il ristoro del danno biologico e morale, è stata esclusa la necessità del tentativo di conciliazione relativamente alle domande di manleva svolte dal datore di lavoro e dal committente nei confronti delle rispettive assicurazioni chiamate in causa) (Trib. Pordenone 13/2/01, pres. e est. Costa, in Dir. lav. 2001, pag. 271, con nota di Pamio, Limiti alla necessità del tentativo obbligatorio di conciliazione anche nei confronti del terzo)
Il giudizio instaurato dal datore di lavoro per accertare la legittimità della disdetta di una serie di contratti collettivi aziendali, con contestuale condanna dei lavoratori alla restituzione di quanto percepito successivamente alla scadenza del termine di preavviso, deve essere preceduto dal tentativo obbligatorio di conciliazione nei confronti delle organizzazioni sindacali interessate che hanno contestato la validità della disdetta medesima; l'omissione del tentativo viola gli artt. 410 e 412 bis c.p.c. e determina l'improcedibilità della domanda (Trib. Potenza 1/2/00, est. Colucci, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 186, con nota di Cattani, Sul tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie collettive di lavoro e sulla legittimazione attiva e passiva delle organizzazioni sindacali)

FONTE: Wikikabour

Cassazione: rientra nell’orario di lavoro e va retribuito il “tempo tuta”

La Cassazione con sentenza nr. 19358 dello scorso dieci settembre ha ribadito il principio per cui, rientra nell’orario di lavoro e quindi va retribuito, il cd. tempo tuta, ossia il tempo impiegato dal lavoratore per indossare la divisa.
Il caso ha riguardato dei dipendenti che hanno citato la propria società per chiedere la corresponsione dell’equivalente di venti minuti di retribuzione giornaliera per 45 settimane per il “tempo tuta”; costoro, per contratto, dovevano transitare per un tornello apribile mediante tesserino magnetico per poi accedere allo spogliatoio,e quindi, effettuare una seconda timbratura del tesserino prima dell’inizio del lavoro; stessa storia per uscire.
Per la Corte “occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica: in particolare, ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita.
Mentre se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito”. Sentenza nr.19273/2006.
Tale principio è ribadito in successive sentenze, come la nr. 15492/2009 secondo la quale, sono da ricomprendere nelle ore di lavoro effettivo, come tali da retribuire, anche le attività preparatorie o successive allo svolgimento dell’attività lavorativa, purchè eterodirette dal datore di lavoro, fra le quali deve ricomprendersi anche il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale, qualora il datore di lavoro ne disciplini il tempo ed il luogo di esecuzione.
Conclude la Corte: “nel rapporto di lavoro deve distinguersi una fase finale, che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104 c.c., comma 2) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale ad esempio può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria.
Di conseguenza al tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a quello destinato alla prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva”.

La malattia insorta durante le ferie può sospenderne il decorso?

La questione degli effetti della malattia intervenuta nel periodo di ferie è stata oggetto di un ampio dibattito in giurisprudenza. Il contrasto si può però oggi definire risolto per effetto della pubblicazione della sentenza 616/87 della Corte Costituzionale che ha dichiarato "l'illegittimità costituzionale dell'art. 2109 c.c. nella parte in cui non prevede che la malattia insorta durante le ferie ne sospenda il decorso". Successivamente, la Corte ha ribadito la propria convinzione con la sentenza 297/90.
Il ragionamento della Corte è il seguente: l'art. 36, III c., della Costituzione pone il principio dell'irrinunciabilità delle ferie, che comporta la conseguente necessità di fruire effettivamente delle ferie stesse. Da ciò discende quindi il diritto del lavoratore ad un congruo periodo di riposo, al fine di ritemprare le energie psico-fisiche usurate dal lavoro, nonchè di soddisfare le sue esigenze ricreative-culturali e più incisivamente partecipare alla vita familiare e sociale. Lo stesso datore di lavoro è interessato a che effettivamente avvenga il recupero delle energie del lavoratore, affinchè il suo successivo apporto all'impresa sia più proficuo di risultati. Le finalità che si intendono perseguire sono certamente frustrate dall'insorgere della malattia durante il periodo di ferie.
Ne consegue che, a seguito dell'autorevole intervento della Corte Costituzionale, l'art. 2109 c.c. debba necessariamente essere interpretato nel senso che l'insorgenza di una malattia nel corso delle ferie ne determini la sospensione; le ferie riprenderanno a decorrere solo a guarigione raggiunta, e il lavoratore avrà diritto a un nuovo periodo di ferie di durata equivalente a quella perduta per effetto della malattia.
A tal fine è peraltro indispensabile che il lavoratore, ammalatosi durante le vacanze, si munisca immediatamente di un certificato medico che attesti il suo stato di malattia e che copia di questo certificato venga spedito a mezzo lettera raccomandata al datore di lavoro e alla USL di competenza entro due giorni dall'insorgenza della malattia. Solo così facendo si ha poi diritto di richiedere di godere del periodo di ferie perduto a causa della malattia.
Le argomentazioni sopra brevemente illustrate sono conformi anche alla Convenzione O.I.L. 132/70 (ratificata dall'Italia il 29.7.82), che ha posto il principio secondo cui i periodi di incapacità al lavoro dovuti a malattia o ad infortunio non possono essere conteggiati nel periodo di ferie annuali.
Se dunque il principio generale è questo, non vi è spazio alcuno per la contrattazione collettiva di introdurre deroghe peggiorative a tale disciplina, riconoscendo per esempio la sospensione delle ferie solo nel caso di ricovero ospedaliero. In questo senso del resto si è già pronunciata in diverse occasioni anche la Corte di Cassazione, dichiarando la nullità delle clausole contrattuali in contrasto con i principi di cui sopra. Ancora recentemente la Corte (sentenza 2515/96) ha affermato che per l'art. 2109 c.c., come rivisto dalla Corte Costituzionale, la malattia sospende le ferie, salvo il caso in cui la malattia stessa non sia tale da pregiudicare la fruizione delle ferie, che è quella di consentire il recupero delle energie psico-fisiche attraverso il riposo e la ricreazione. Interpretata in tal modo la norma, appare nulla ogni clausola contrattuale che consenta la sospensione solo in caso di ricovero ospedaliero, in quanto pone una limitazione non consentita.
Si tenga presente, infine, che il lavoratore che cada malato nel corso delle ferie non è tenuto a fare rientro presso il proprio domicilio per poter invocare la sospensione delle ferie stesse. Infatti, il periodo di malattia può essere trascorso anche in un luogo diverso dalla propria abitazione, e dunque anche in una località di villeggiatura, a condizione che di ciò venga data immediata notizia, tramite le opportune indicazioni da apporsi sul certificato di malattia, all’Istituto Previdenziale, che deve sempre avere la possibilità di valutare le effettive condizioni di salute del lavoratore.