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LA RIFORMA BIAGI

“tratto dal sito www.bloglavoro.com”

l decreto attuativo della riforma Biagi ha introdotto considerevoli modifiche per quanto riguarda le varie tipologie dei contratti di lavoro. Questo per agevolare la regolamentazione e creare maggiore occupazione di qualità nel mercato del lavoro. In particolare i cambiamenti attuati hanno toccato i contratti di apprendistato, tirocinio, inserimento, part time ed introdotto nuove tipologie contrattuali finalizzate ad incrementare l’occupabilità, permettendo a molti lavoratori l’ingresso o il ritorno nel mondo del lavoro.

LA BORSA LAVORO

La riforma Biagi ha inoltre istituito “la Borsa continua nazionale del lavoro”, una rete telematica dei servizi pubblici e privati destinata a contenere numerose domande e offerte di lavoro a livello nazionale e regionale. Uno strumento che ha lo scopo di agevolare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. I lavoratori possono inserire i propri curricula e consultare le offerte, mentre i datori potranno analizzare i dati di chi è disponibile al lavoro

La prima porta di ingresso alla rete dei servizi è stata istituita dalla Regione Lombardia con l’avvio di Borsa Lavoro Lombardia (http://www.borsalavorolombardia.net). Per informarsi sull’attivazione nella propria regione, è necessario rivolgersi al Centro per l’Impiego della provincia.

LE TIPOLOGIE DI CONTRATTO INTRODOTTE E MODIFICATE DALLA RIFORMA

IL CONTRATTO DI APPRENDISTATO E’ un accordo di carattere formativo che implica una forma scritta e che deve indicare la prestazione che dovrà svolgere l’apprendista. Inoltre prevede la stesura di un piano formativo e della qualifica che conseguirà al termine del rapporto di lavoro. Possono beneficiare dell’apprendistato di formazione i giovani che vanno dai 15 ai 18 anni e la durata del contratto non può superare i tre anni; da due a sei anni invece per l’apprendistato professionalizzante diretto a giovani dai 18 ai 29 anni.
IL CONTRATTO DI INSERIMENTO Sostituisce l’ormai datato contratto di formazione e lavoro, rimasto in vigore solo per il settore della Pubblica Amministrazione. Come per il contratto di apprendistato, c’è la necessità di una forma scritta e di un’indicazione precisa del progetto individuale di inserimento. I soggetti destinatari sono: le persone di età compresa tra i 18 e i 29 anni ; i disoccupati di lunga durata tra i 29 e i 32 anni ; i lavoratori con più di 50 anni senza lavoro ; le persone che vogliono ricominciare a lavorare dopo un’inattività di due anni ; donne di qualsiasi età che risiedano in regioni dove il tasso di disoccupazione arriva al 20% ; uomini di qualsiasi età affette da handicap fisici, mentali o psichici.Il contratto di inserimento prevede una durata che va da 9 a 18 mesi complessivi, fino a 36 mesi per i portatori di handicap.
IL LAVORO PART TIME La riforma ha anche rivisitato il lavoro part time; le principali novità:A) il datore di lavoro può richiedere, al lavoratore part-time orizzontale, anche a tempo determinato, l’effettuazione di ore supplementari (il consenso del lavoratore è necessario solo se manca la relativa regolamentazione contrattuale);B) il datore di lavoro può richiedere, al lavoratore part-time verticale o misto, anche a tempo determinato, l’effettuazione di straordinario.
IL LAVORO A PROGETTO Con la Riforma Biagi il contratto di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.) viene sostituito dal lavoro a progetto. La collaborazione dovrà essere riconducibile ad uno o più progetti (a un programma di lavoro o a fasi di un programma di lavoro) determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato.
IL CONTRATTO DI TIROCINIO ESTIVO Mira ad agevolare gli studenti nella scelta professionale e a permettere loro di orientarsi meglio nel mondo del lavoro. La durata non supera i 3 mesi e si svolge nel periodo compreso tra la fine dell’anno accademico e/o scolastico e l’inizio di quello successivo. Come per la formula stage l’azienda che ospita il tirocinante non ha l’obbligo di pagare il lavoratore, nel caso invece volesse non può superare il compenso economico di 600 euro. O semplicemente “job sharing” prevede l´assunzione in solido da parte di due o più lavoratori dell´esecuzione di un´unica ed prestazione lavorativa. Ogni lavoratore è comunque direttamente e personalmente responsabile dell’adempimento dell’intera prestazione lavorativa. Il salario o lo stipendio è rapportato alle ore lavorate.
IL LAVORO IN AFFITTO E’ una tipologia contrattuale attualmente già utilizzata dalle agenzie interinali ma con questo nuovo decreto legislativo il contratto di “somministrazione di lavoro” detto anche “staff leasing” può essere utilizzato sia a termine sia a tempo indeterminato ed esteso anche per i lavori tipo le attività di marketing, la gestione dei call centers, la consulenza informatica e quella direzionale, l´assistenza e la cura alla persona, la gestione delle biblioteche, la vigilanza ed il facchinaggio.
IL LAVORO OCCASIONALE ED ACCESSORIO Gestito attraverso appositi voucher prepagati che saranno acquistati dalle famiglie direttamente presso le agenzie del lavoro. Con tale fattispecie contrattuale potranno essere regolamentate attività lavorative quali baby sitter, badanti, ripetizioni ecc. Grazie alla riforma alcune categorie di lavoratori (casalinghe, disoccupati, studenti) potranno svolgere piccoli lavori occasionali e ricevere dalle aziende o dalle famiglie un buono orario “prepagato” che comprende sia la retribuzione sia la previdenza e l’assicurazione contro gli infortuni.
IL LAVORO A CHIAMATA Detto anche “job on call” o “intermittente”: il lavoratore rende la propria disponibilità a prestare lavoro nell’arco di un tempo predefinito anche se l´azienda può limitarsi ad utilizzarlo in funzione del soddisfacimento delle esigenze produttive con un preavviso di 48 ore. E´ prevista un´”indennità di disponibilità”.

Effetti della mancata impugnazione del licenziamento

Con sentenza n. 2676 del 5 febbraio 2010, la Cassazione ha affermato che la mancata impugnazione del provvedimento di licenziamento nel termine perentorio dei 60 giorni, preclude sia il reintegro in azienda che l’ordinaria azione di risarcimento del danno; precisando che, il breve termine di decadenza (60 giorni) è stabilito a garanzia della certezza della situazione di fatto pertanto, il decorso di tale termine impedisce al dipendente di far accertare in sede giudiziale l’illegittimità del recesso che è il presupposto fondamentale per la richiesta di indennizzo.
Il caso ha riguardato due lavoratori dipendenti della S.p.A. Rete Ferroviaria Italiana che, sono stati licenziati, con decorrenza dal 31.12.1998, in base ad accordi fra l’azienda e le organizzazioni sindacali, in quanto ritenuti personale “eccedente”. I lavoratori chiedevano al tribunale di primo grado di stabilire l’illegittimità dei licenziamenti per mancato rispetto delle regole procedurali previste dalla legge n. 223/91 per i licenziamenti collettivi, la condanna della società alla reintegra nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno ai sensi dell’art.18 Statuto dei lavoratori o, in mancanza, al risarcimento dei danni in base alle regole generali previste dell’art. 1218 c.c.
Il Tribunale, pur ritenendo inapplicabile l’art. 18 St. Lav. (per mancata impugnazione dei licenziamenti nel termine di 60 giorni previsto dalla legge n. 604/66), accertava l’illegittimità dei licenziamenti e condannava l’azienda al risarcimento dei danni in base all’art. 1218 c.c. Decisione che veniva confermata in appello.
La Suprema Corte, nel riprendere un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato afferma invece che: “la mancata impugnazione del licenziamento nel termine fissato, non comporta la liceità del recesso del datore di lavoro bensì preclude al lavoratore soltanto la possibilità di reintegra nel posto di lavoro ed il risarcimento ai sensi della L.300/70 (Statuto dei lavoratori). Ne consegue che in caso di decadenza dall’impugnazione, il lavoratore può solo chiedere il risarcimento in base ai principi generali, sempre che ne ricorrano i presupposti.”
In un simile contesto, costituendo l’inadempimento il fatto generatore della pretesa risarcitoria, la tutela si risolve in una questione di scelta della norma da applicare ossia, lo statuto dei lavoratori o le norme del codice civile.
Secondo gli ermellini, il “vigente ordinamento prevede per la risoluzione del rapporto di lavoro una disciplina speciale, del tutto diversa da quella ordinaria, i cui connotati di specialità e di imperatività mal si conciliano con una libertà di scelta per le parti tra regime ordinario e regime speciale nelle aree in cui il licenziamento deve essere necessariamente sorretto da specifiche ragioni.
Nel quadro di questo speciale regime, e nelle relative aree, il legislatore ha previsto un termine breve di decadenza (sessanta giorni) per l’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore (art. 6 legge 604/66 ed art. 5, co. 3, legge 223/91) a garanzia della certezza della situazione di fatto determinata dal recesso datoriale, ritenendo tale certezza valore preminente rispetto a quello della legittimità del licenziamento”.
Ne consegue che al lavoratore che non abbia impugnato nel termine di decadenza suddetto licenziamento è precluso il diritto di far accertare in sede giudiziale la illegittimità del recesso e di conseguire il risarcimento del danno, nella misura prevista dalle leggi speciali (art. 8 legge 604/66 ed art. 18 legge 223/91). Se tale onere non viene assolto dal lavoratore, peraltro, il Giudice non può conoscere della illegittimità del licenziamento neppure per ricollegare al recesso conseguenze risarcitorie di diritto comune.
Nell’area dei licenziamenti disciplinati dalla normativa speciale, invece, l’azione risarcitoria di diritto comune può essere esercitata, in via alternativa, soltanto previa tempestiva impugnazione del licenziamento.
Pertanto, conclude la corte, “la decadenza impedisce al lavoratore di richiedere il risarcimento del danno secondo le norme codicistiche ordinarie, nella misura in cui non consente di far accertare in sede giudiziale la illegittimità del licenziamento. In particolare, sul piano della responsabilità contrattuale, poiché l’inadempimento (nella specie, il dedotto recesso illegittimo) costituisce presupposto del risarcimento dovuto dal contraente inadempiente a norma dell’art. 1218 c.c., la impossibilità di tale accertamento esclude la possibilità di riconnettere al preteso inadempimento del datore di lavoro l’obbligazione risarcitoria in favore del lavoratore.
Quindi, “l’azione risarcitoria di diritto comune, può essere esercitata, anche in caso di decadenza, soltanto in via residuale per far valere profili di illegittimità del licenziamento che siano diversi da quelli previsti dalla normativa speciale sui licenziamenti, individuali o collettivi.
“Nell’area dei licenziamenti disciplinati dalla normativa speciale, l’azione risarcitoria di diritto comune può essere esercitata in via alternativa soltanto previa tempestiva impugnazione del licenziamento”.


Fonte: www.guidaaldiritto.ilsole24ore.com

Esistono forme particolari di tutela per le lavoratrici nel caso di licenziamento collettivo?

Da tempo il legislatore italiano ha avvertito l'esigenza di predisporre particolari forme di tutela a favore delle donne lavoratrici, e ciò a fronte dell'evidente situazione di svantaggio che le stesse si trovano, da sempre, ad affrontare nel mondo del lavoro. Inizialmente la normativa in materia aveva essenzialmente una funzione di protezione (ad esempio vietando forme di discriminazione per quel che riguarda il salario - art. 37 della Costituzione -, ovvero stabilendo forme di tutela rafforzate in caso di maternità: L. 1204/71). Più recentemente, invece, il legislatore si è attivato al fine conseguire una reale promozione del ruolo della donna nei luoghi di lavoro, non solo reprimendo le discriminazioni, dirette o indirette, ma introducendo anche strumenti di promozione dell'occupazione femminile e dell'eguaglianza sostanziale delle donne nel lavoro.

Questa è la finalità che persegue la L. 125/1991, nota come la legge sulle "azioni positive". Tale legge, mentre ha sicuramente sancito principi di particolare importanza, non ha però dato i risultati sperati in sede di applicazione pratica, rendendo dunque necessari ulteriori interventi legislativi, volti a superare tale carenza sul piano concreto. In particolare, si deve ricordare come una disposizione normativa di ancor più recente emanazione abbia riguardato il problema dei licenziamenti collettivi. Si tratta dell'art. 6 comma 5 bis della L. 19 luglio 1993 n. 236 che, integrando la normativa vigente in questa materia (disciplinata dalla L. 223/91), ha introdotto una disposizione diretta a prevenire forme di discriminazione sessuale nell’ambito - appunto - dei licenziamenti collettivi: "L'impresa non può altresì collocare in mobilità una percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale di manodopera femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazione".

Ciò significa, per fare un esempio, che se, nella società che ha disposto la mobilità, una certa mansione è svolta da 20 persone di cui 10 donne, la collocazione in mobilità (ovvero il licenziamento), nell'ambito degli addetti a tale mansione, non potrà riguardare una percentuale di lavoratrici di sesso femminile superiore al 50%, ovvero a quella delle donne impiegate nella mansione di riferimento. In questo caso, dunque, la riduzione di personale dovrà colpire sia uomini che donne, in misura corrispondente alla proporzione esistente tra gli addetti a tale mansione.

Inoltre, nel caso in cui la società abbia sede in Lombardia, si dovrà tenere conto anche di quanto stabilito nella delibera della Commissione Regionale per l'Impiego (CRI) della Lombardia n. 244 del 25.5.1994, in forza della quale il datore di lavoro è tenuto a comunicare alla commissione stessa l'avvenuto rispetto, nella scelta dei lavoratori da collocare in mobilità, del criterio sopra indicato, consentendo così un controllo pubblico del comportamento aziendale.

Qualora le disposizioni sopra indicate non venissero rispettate, la lavoratrice interessata potrà agire in giudizio per ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento e, conseguentemente, la reintegrazione in servizio ed il risarcimento del danno.

Tempestività dell’impugnazione del licenziamento



(Nota dell'Avv. Daniele Iarussi a Cass. Sez. Un. 14 aprile 2010, n. 8830)

In tema di licenziamento, Cass. 8830/2010 afferma che l’impugnazione del licenziamento ai sensi dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966, formulata mediante dichiarazione spedita al datore di lavoro con missiva raccomandata a mezzo del servizio postale, deve intendersi tempestivamente effettuata allorché la spedizione avvenga entro sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento o dei relativi motivi, anche se la dichiarazione medesima sia ricevuta dal datore di lavoro oltre il termine menzionato, atteso che - in base ai principi generali in tema di decadenza, enunciati dalla giurisprudenza di legittimità e affermati, con riferimento alla notificazione degli atti processuali, dalla Corte costituzionale - l’effetto di impedimento della decadenza si collega, di regola, al compimento, da parte del soggetto onerato, dell’attività necessaria ad avviare il procedimento di comunicazione demandato ad un servizio - idoneo a garantire un adeguato affidamento - sottratto alla sua ingerenza, non rilevando, in contrario, che, alla stregua del predetto art. 6, al lavoratore sia rimessa la scelta fra più forme di comunicazione, la quale, valendo a bilanciare la previsione di un termine breve di decadenza in relazione al diritto del prestatore a conservare il posto di lavoro e a mantenere un’esistenza libera e dignitosa (art. 4 e 36 Cost.), concorre a mantenere un equo e ragionevole equilibrio degli interessi coinvolti.


Avv. Daniele Iarussi

Art. 410 (Tentativo obbligatorio di conciliazione)

Chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti dall'articolo 409, e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti e accordi collettivi deve promuovere, anche tramite l'associazione sindacale alla quale aderisce o conferisca mandato, il tentativo di conciliazione presso la commissione di conciliazione individuata secondo i criteri di cui all'articolo 413.
La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza.
La commissione, ricevuta la richiesta, tenta la conciliazione della controversia, convocando le parti, per una riunione da tenersi non oltre dieci giorni dal ricevimento della richiesta.
Con provvedimento del direttore dell'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione e' istituita in ogni provincia, presso l'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, una commissione provinciale di conciliazione composta dal direttore dell'ufficio stesso o da un suo delegato, in qualita' di presidente, da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei datori di lavoro e da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei lavoratori, designati dalle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative su base nazionale.
Commissioni di conciliazione possono essere istituite, con le stesse modalita' e con la medesima composizione di cui al precedente comma, anche presso le sezioni zonali degli uffici provinciali del lavoro e della massima occupazione.
Le commissioni, quando se ne ravvisi la necessita', affidano il tentativo di conciliazione a proprie sottocommissioni, presiedute dal direttore dell'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione o da un suo delegato, che rispecchino la composizione prevista dal precedente terzo comma.
In ogni caso per la validita' della riunione e' necessaria la presenza del presidente e di almeno un rappresentante dei datori di lavoro e di uno dei lavoratori.
Ove la riunione della commissione non sia possibile per la mancata presenza di almeno uno dei componenti di cui al precedente comma, il direttore dell'ufficio provinciale del lavoro certifica l'impossibilita' di procedere al tentativo di conciliazione.


NON PIU' IN VIGORE PER EFFETTO DELLA LEGGE 183/2010

Non è licenziabile il dipendente che mette in atto un atteggiamento intimidatorio nei confronti dei colleghi di lavoro



(Cassazione lavoro, sentenza 4.10.2010 n. 20566)

La Corte di Appello di Napoli, confermando la sentenza di primo grado, respingeva la domanda di A.L. avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento disciplinare intimatogli dalla società xx. I giudici di appello ritenevano, innanzitutto, infondata l'eccezione del lavoratore di tardività, ex art. 68, n. 5 CCNL del settore, della comunicazione del licenziamento sul rilievo della necessita, in applicazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 28 del 2004, di aver riguardo, ai fini della verifica del rispetto del termine ai decadenza di trenta giorni sancito dalla norma pattizia, al momento in cui la lettera di licenziamento era stata consegnata all'Ufficio postale e non a quello del ricevimento della missiva da parte del lavoratore. Sul presupposto, poi, della dimostrazione dell'avvenuta affissione del codice disciplinare rectius del ccnl - nella bacheca aziendale e della regolarità dello svolgimento dell'istruttoria condotta dal Tribunale, detti giudici affermavano che, nonostante le dichiarazioni testimoniali non confermassero la rilevanza disciplinare dei fatti addebitati al lavoratore, tuttavia in considerazione degli esposti scritti dei dipendenti C. e I., il licenziamento doveva ugualmente reputarsi legittimo sotto il profilo della giusta causa "data dal diffuso atteggiamento intimidatorio tenuto dall' A. nei confronti" dei citati dipendenti C. e I.. Avverso questa sentenza l' A. ricorre in cassazione sulla base di cinque censure. Resiste con controricorso la società xx.

Lavoro a termine: la proroga può essere concessa una sola volta e in casi eccezionali


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - SEZIONE LAVORO

Sentenza 10.9.201 n. 19365

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico - Presidente -

Dott. FOGLIA Raffaele - Consigliere -

Dott. DI NUBILA Vincenzo - Consigliere -

Dott. IANNIELLO Antonio - rel. Consigliere -

Dott. BANDINI Gianfranco - Consigliere -

ha pronunciato la seguente: sentenza

sul ricorso 19992/2006 proposto da:

AUTOSTRADE PER L’ITALIA S.P.A., - ricorrenti -

contro

S.C., - controricorrente -

avverso la sentenza n. 441/2005 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 27/06/2005 r.g.n. 397/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/07/2010 dal Consigliere Dott. ANTONIO IANNIELLO;

udito l’Avvocato MARAZZA MAURIZIO;

udito il P.M. In persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE TOMMASO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto


La Corte d’appello di Genova, con sentenza depositata il 27 giugno 2005, ha confermato, per quanto qui interessa, la decisione di primo grado, di declaratoria della nullità della proroga dal 1 al 31 ottobre 1995 del contratto a tempo determinato stipulato da S. C. e la s.p.a. Autostrade per il periodo dal (OMISSIS), ai sensi del D.L. n. 17 del 1983, art. 8 bis come introdotto dalla Legge Conversione n. 79 del 1983 (per la necessità di sopperire alle maggiori esigenze del servizio in conseguenza dell’aumento del traffico), di conversione del rapporto a tempo indeterminato fin dall’inizio e di condanna della società a risarcire allo S. i danni, nella misura delle retribuzioni perdute dal (OMISSIS).

Poiché la proroga dal 1 al 31 ottobre 1995 era stata stabilita “dato il protrarsi delle stesse esigenze di carattere straordinario che hanno dato luogo alla sua assunzione”, la Corte territoriale ha infatti ritenuto con ciò violato la L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 2, a norma del quale la proroga del contratto a termine presuppone la ricorrenza di esigenze ontologicamente diverse da quelle che avevano giustificato l’originaria apposizione del termine e aventi i caratteri della contingenza e dell’imprevedibilità.

Per la Cassazione di tale sentenza propongono ora un unico ricorso la Autostrade s.p.a. E la società Autostrade per l’Italia s.p.a. (alla quale la prima aveva ceduto il compendio aziendale afferente le attività svolte in regime di concessione), con un unico motivo.

Resiste S.C. Con rituale controricorso.

Le parti hanno infine depositato memorie.

Diritto

Col ricorso, le società deducono la violazione della L. n. 78 del 1983, art. 8 bis e della L. n. 230 del 1962, art. 2.

In proposito, premesso che nel caso in esame il contratto a termine era stato autorizzato ai sensi della legge citata dall’Ispettorato del lavoro per il periodo dal 1 giugno al 31 ottobre 1995, le società sostengono che tale autorizzazione, come aveva legittimato la stipulazione del contratto a termine, cosi legittimerebbe, nell’ambito del periodo autorizzato, la sua proroga, che in pratica coinciderebbe con la piena utilizzazione dell’autorizzazione.

Deriverebbe da ciò che la proroga non sarebbe soggetta nel caso di specie alla regola di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 2.

Le società concludono pertanto chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata, con ogni conseguenza di legge e con l’affermazione del seguente principio di diritto: “l’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro rimuove il limite legale al ricorso al lavoro temporaneo e costituisce un fatto di legittimazione e una “conditio iuris” quanto alla legittimità del termine) dei singoli contratti stipulati dalle parti nell’esercizio dell’autonomia prevista e pertanto l’autorizzazione dell’Ispettorato legittima sia l’apposizione del termine che l’eventuale proroga del contratto nei limiti temporali previsti dall’autorizzazione”.

Il ricorso è infondato.

Secondo la L. n. 230 del 1962, art. 2, vigente all’epoca della proroga del contratto di lavoro a tempo determinato in esame, “il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, eccezionalmente prorogato, non più di una volta e per un tempo non superiore alla durata del contratto iniziale, quando la proroga è richiesta da esigenze contingenti ed imprevedibili e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato ai sensi del comma 2 dell’articolo precedente “.

Costituisce, in proposito, orientamento giurisprudenziale di questa Corte, cui il collegio aderisce, l’affermazione di principio secondo la quale la regola di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 2 è applicabile anche all’ipotesi di proroga del termine di un contratto di lavoro a tempo determinato, stipulato ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23 (cfr. ad es. Cass. 26 gennaio 2008 n. 645) o, come quello in esame, a norma della L. n. 18 del 1978, di conversione del D.L. n. 876 del 1977 prorogata con la L. n. 737 del 1978 e la L. n. 598 del 1979, infine ulteriormente prorogata ed estesa ad ogni settore dal D.L. n. 17 del 1983, art. 8 bis come introdotto dalla Legge Conversione n. 79 del 1983 (cfr. Cass. 12 luglio 2002 n. 10189).

Le norme citate si limitano infatti a prevedere nuove ipotesi di legittima apposizione di un termine finale al rapporto di lavoro oltre a quelle tassativamente elencate dalla L. n. 230 del 1962, ma non derogano per il resto alla disciplina in essa prevista, in particolare quanto alla possibile proroga del termine.

In proposito, questa Corte ha ripetutamente affermato il principio secondo cui a norma della L. n. 230 del 1962, art. 2 la proroga del termine è consentita unicamente in presenza di esigenze contingenti e imprevedibili ontologicamente diverse da quella che aveva giustificato l’originaria apposizione del termine (cfr., per tutte, Cass. 16 aprile 2008 n. 9993 e 23 novembre 2006 n. 24886) e tale regola deve pertanto trovare applicazione anche nel caso in esame.

Dissente da tale conclusione la sentenza di questa Corte del 26 gennaio 1988 n. 645, citata dalle ricorrenti, la quale ritiene che l’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro possa coprire anche l’eventuale proroga del contratto, stipulato originariamente per un periodo inferiore a quello autorizzato e prorogato non oltre il suo esaurimento.

Detta soluzione non convince.

Nessuna norma di legge porta infatti deroga alla disposizione del D.L. 3 dicembre 1977 n. 876, art. 1, comma 2, convertito nella L. 3 febbraio 1978, n. 18 (il cui ambito di applicazione è stato esteso nel tempo e a tutti i settori produttivi dalle norme di legge prima citate), secondo la quale “ai contratti stipulati ai sensi del comma precedente si applica la disciplina stabilita dalla L. 18 aprile 1962, n. 230” e pertanto anche il relativo art. 2.

Ma anche sul piano della ratio legis, la soluzione emergente dalla interpretazione letterale della legge appare ragionevole, ove si rilevi che la stipulazione da parte del datore di lavoro, in presenza delle relative condizioni di legge, di un contratto di lavoro per un periodo inferiore a quello stabilito nell’autorizzazione, ne consuma la possibile utilizzazione, dovendosi ritenere che il contenimento entro limiti più rigorosi del potere riconosciutogli sia avvenuto in base alla previsione, su cui si radica anche l’affidamento di controparte, di necessità temporalmente più ridotte rispetto a quelle rappresentate in sede di richiesta di autorizzazione e in base alle quali si esaurisce la possibilità di esercizio del relativo potere.

Ne consegue che la disciplina dell’eventuale proroga non può che riallinearsi a quelle stabilita per ogni altra ipotesi di contratto a termine disciplinato dalla L. n. 230 del 1962.

Concludendo, devesi pertanto affermare il principio di diritto per cui nel regime della L. 18 aprile 1962, n. 230, la disciplina del relativo art. 2, quanto alla possibilità di proroga del termine apposto al contratto di lavoro, è applicabile anche all’ipotesi di contratto originariamente stipulato ai sensi del D.L. n. 17 del 1983, art. 8 bis come introdotto dalla L. Conversione n. 79 del 1983, ancorchè detta proroga mantenga la durata del contratto all’interno del periodo autorizzato dall’ispettorato del lavoro a norma di quest’ultima legge.

Il ricorso va pertanto respinto, con le normali conseguenze di legge, anche in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio, operato, con la relativa liquidazione, in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti a rimborsare, in solido, allo S. le spese di questo giudizio di Cassazione, liquidate in spese ed Euro 3.000,00 per onorari, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 15 luglio 2010.

Depositato in Cancelleria il 10 settembre 2010

Permesso di soggiorno


Il permesso di soggiorno per motivi di lavoro è rilasciato solo dopo la stipula del contratto di soggiorno per lavoro e la sua durata è quella prevista dal contratto di soggiorno e comunque non può superare
nove mesi per il lavoro stagionale

un anno per lavoro subordinato a tempo determinato

due anni per lavoro subordinato a tempo indeterminato

due anni, per gli stranieri muniti di permesso di soggiorno per lavoro autonomo
Lo straniero che soggiorna regolarmente nello stato Italiano da almeno 6 anni può ottenere la carta di soggiorno, che consente al titolare di fare ingresso in Italia senza il visto e di svolgere nel territorio dello Stato ogni attività lecita, compreso l’esercizio del diritto elettorale quando previsto dall’ordinamento.

Prima richiesta

Il permesso di soggiorno deve essere richiesto al Questore della provincia in cui lo straniero si trova entro otto giorni dal suo ingresso in Italia. Alcune questure, tra cui Roma, Milano e Torino, consentono la ricezione delle domande anche presso altre strutture. Il permesso deve avere una motivazione identica a quella del visto. Oggi l’ingresso in Italia è regolato dal decreto flussi che stabilisce periodicamente la quota di lavoratori stranieri che possono entrare nel nostro Paese. Ogni Regione ne può accogliere un numero prestabilito dal decreto, anche in base alla domanda di lavoro del territorio.

La nuova procedura per il rilascio ed il rinnovo del permesso e della carta di soggiorno consente infatti, ai cittadini stranieri, di ritirare il kit contenente la modulistica presso uno qualsiasi dei 14000 uffici postali, Comuni e Patronati abilitati. I documenti vanno riconsegnati poi negli gli uffici abilitati a ricevere la domanda che attualmente sono 5332. La nuova procedura è obbligatoria per gli stranieri, mentre è facoltativa per i cittadini di uno stato membro dell’Unione europea. Il sito della Polizia di Stato indica tutte le tipologie di permessi di soggiorno che si possono richiedere tramite ufficio postale. I documenti necessari per la pratica di rilascio e rinnovo del permesso di soggiorno sono
il modulo di richiesta

il passaporto, o un altro documento equivalente, in corso di validità con il relativo visto di ingresso, dove richiesto, più una fotocopia dello stesso documento

4 foto formato tessera, identiche e recenti

una marca da bollo

la documentazione necessaria a seconda della tipologia del permesso di soggiorno richiesto
Alcuni consigli. La domanda, per essere esaminata, deve essere firmata dall’interessato. Al momento della presentazione sarà chiesto un documento di riconoscimento. La domanda deve essere presentata in busta aperta e sarà l’operatore delle poste a consegnare la ricevuta della raccomandata per la compilazione. Con lo userid e la password in alto sulla ricevuta, lo straniero può controllare lo stato della pratica sul Portale Immigrazione.

Rinnovo
La richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno deve essere presentata dallo straniero alla Questura della provincia in cui si trova: novanta giorni prima della scadenza per il permesso di soggiorno valido 2 anni, sessanta giorni prima della scadenza per quello con validità di 1 anno, trenta giorni prima della scadenza nei restanti casi. Se si sceglie la nuova procedura, è necessario inserire nella busta, insieme ai documenti richiesti nel kit, anche la fotocopia del documento di soggiorno da rinnovare o da aggiornare. La durata del permesso di soggiorno non rilasciato per motivi di lavoro e famiglia è quella prevista dal visto di ingresso.

Conversione del permesso di soggiorno
Il permesso di soggiorno rilasciato per motivi di lavoro subordinato o di lavoro autonomo e per motivi familiari può essere utilizzato anche per le altre attività consentite allo straniero, anche senza conversione o rettifica del documento, per il periodo di validità dello stesso. In particolare: il permesso di soggiorno rilasciato per lavoro subordinato non stagionale consente l'esercizio di lavoro autonomo e l'esercizio di attività lavorativa in qualità di socio lavoratore di cooperative; il permesso di soggiorno rilasciato per lavoro autonomo consente l'esercizio di lavoro subordinato, per il periodo di validità del documento, previa iscrizione nelle liste di collocamento. Il permesso di soggiorno rilasciato per motivi di studio e formazione può essere convertito, sempre prima della sua scadenza, in permesso di soggiorno per motivi di lavoro, considerate le quote stabilite dai flussi di ingresso e il titolo di studio conseguito. La conversione può essere richiesta se lo studente straniero si è laureato in Italia, con il nuovo o con il vecchio ordinamento, se ha conseguito un diploma di specializzazione, un dottorato di ricerca o un master universitario di primo o secondo livello.

Da febbraio 2008, in 223 Comuni d’Italia, il Ministero dell’interno avvia una nuova procedura per il rilascio e rinnovo dei permessi di soggiorno. Il Comune si sostituisce alle Poste italiane, e con un’agenda telematica affianca le Questure nel rilascio del documento. Il permesso di soggiorno dovrebbe essere così consegnato in soli 70 giorni.

Con le Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, approvate in via definitiva al senato il 2 luglio 2009, è stato previsto che insieme alla richiesta di permesso di soggiorno, ogni cittadino straniero debba sottoscrivere un Accordo di integrazione e versare un contributo che varia dagli 80 ai 200 euro. Coloro che invece chiedono un permesso di soggiorno Ce di lunga durata devono sostenere anche un esame di lingua italiana.