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Conviene davvero lavorare a cottimo?


Mi hanno proposto un lavoro a cottimo, senza darmi delle buone spiegazioni sul contratto con relativi contributi. Ma conviene veramente a lavorare a cottimo?
Ivano B.


Risponde Bruno Olivieri, consulente di Lavoratorio.it per le tematiche di diritto del lavoro ed autore del blog www.linformalavoro.blogspot.com :

"Innanzitutto vorrei chiarire cos'è il cottimo, vista la mancanza di informazioni da parte di chi ha proposto il lavoro. Si tratta di una forma retributiva e non di una tipologia di contratto: il cottimo è solo un'altra modalità di calcolo del trattamento economico, mentre le norme e le regole del rapporto di lavoro sono sempre quelle relative al contratto nazionale di categoria applicato per il settore in cui si opera e per le mansioni che si svolgono. Questa forma contributiva è commisurata direttamente e in modo direttamente proporzionale alla quantità di lavoro eseguito; pertanto il cottimista (cioè chi presta l'opera), pur essendo tenuto a rispettare un determinato orario di lavoro, non è retribuito unicamente in ragione della durata delle sue prestazioni ma in base ai risultati raggiunti.
Chiarito che il contratto di riferimento è il contratto nazionale di categoria, di fronte ad una proposta di lavoro a cottimo è aanzitutto necessario chiarire il prezzo delle unità prodotte, tenendo presente il tipo di lavoro da eseguire (ad esempio, la complessità).
Altra cosa che il datore di lavoro dovrebbe precisare è il tipo di cottimo vorrebbe proporti. Esistono infatti un cottimo a tariffa (la quantità del salario si determina sulla base della quantità di lavoro eseguito in un orario prestabilito) e un cottimo a contratto (viene stabilito un salario per il totale del lavoro svolto, quindi non ci sono vincoli orari).
Il lettore chiede notizie anche delle trattenute previdenziali e fiscali applicate; come più volte ricordato, il contratto applicato è quello per categoria e mansione assegnatati, perciò le trattenute non hanno applicazioni diverse.
Molto sinteticamente ho qui descritto il concetto di lavoro a cottimo, ma per sapere se convenga o meno questo tipo di trattamento economico rispetto alla normale paga ad orario, bisogna verificare concretamente quanti pezzi devono essere prodotti e quale è la paga per ogni pezzo. Solamente quando si è in possesso di questi elementi è possibile paragonare il salario a cottimo con quello previsto da una normale retribuzione oraria o giornaliera.

dott. Bruno Olivieri
www.linformalavoro.blogspot.com

Somministrazione lavoro - Trattamento retributivo e normativo

Secondo l'art. 23 del D.Lgs. 276/2003, i dipendenti del somministratore hanno diritto a un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore rispetto ai dipendenti di pari livello dell'utilizzatore, a parità di mansioni svolte.
L'unica eccezione prevista dalla norma riguarda il caso di somministrazioni effettuate a soggetti privati autorizzati nell'ambito di specifici programmi di formazione, inserimento e riqualificazione professionale, erogati a favore di lavoratori svantaggiati, in concorso con gli enti locali.
Naturalmente, il trattamento economico spetta al lavoratore somministrato per il tempo effettivo di lavoro.
Tuttavia, può accadere che il dipendente di una società di somministrazione rimanga temporaneamente inoccupato, in attesa di essere assegnato a un contratto di somministrazione.
In questo caso, il lavoratore ha diritto alla indennità di disponibilità, nella misura stabilita dal contratto collettivo applicabile al somministratore e comunque non inferiore alla misura prevista mediante decreto del ministro del lavoro.
In ogni caso, questa indennità è esclusa dal computo di ogni istituto di legge o di contratto collettivo (art. 22 D.Lgs. 276/2003).
Inoltre, i dipendenti del somministratore hanno il diritto di usufruire di tutti i servizi sociali ed assistenziali di cui godono i dipendenti dell'utilizzatore addetti alla stessa unità produttiva, tranne quelli il cui godimento è condizionato al conseguimento di una determinata anzianità di servizio o alla iscrizione ad associazioni o a società cooperative.
Anche gli oneri contributivi, previdenziali, assicurativi ed assistenziali per i dipendenti del somministratore sono a carico del somministratore stesso, così come previsto dall'art. 25 del D.Lgs. 276/2003.
I contributi sono dovuti anche sull'indennità di disponibilità, naturalmente in proporzione all'indennità stessa.
L'utilizzatore è in ogni caso obbligato in solido con il somministratore a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali.
Ciò significa in particolare che se la retribuzione non venisse corrisposta dal somministratore, il lavoratore potrebbe pretendere il pagamento nei confronti dell'utilizzatore.

Somministrazione lavoro - Obbligo della forma scritta e contenuti

Il contratto di somministrazione deve necessariamente essere stipulato per iscritto.
Infatti, in tal senso dispone l'art. 21 D.Lgs. 276/2003. La stessa norma prevede espressamente che, in mancanza di forma scritta, il contratto è nullo e il lavoratore deve essere considerato dipendente dell'utilizzatore.
La norma già citata indica anche il contenuto minimo e necessario del contratto.
Più precisamente, il contratto di somministrazione deve indicare, per iscritto, i seguenti elementi:
-gli estremi dell'autorizzazione rilasciata al somministratore;
-il numero dei lavoratori da somministrare;
-i casi e le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo;
-l'indicazione della presenza di eventuali rischi per l' integrità e la salute del lavoratore e delle misure di prevenzione adottate;
-la data di inizio e la durata prevista del contratto di somministrazione;
-le mansioni alle quali saranno adibiti i lavoratori e il loro inquadramento;
-il luogo, l'orario ed il trattamento economico e normativo delle prestazioni lavorative;
-assunzione da parte del somministratore della obbligazione del pagamento diretto al lavoratore del trattamento economico, nonché del versamento dei contributi previdenziali;
-assunzione dell'obbligo dell'utilizzatore di rimborsare al somministratore gli oneri retributivi e previdenziali da questa effettivamente sostenuti in favore dei prestatori di lavoro;
-assunzione dell'obbligo dell'utilizzatore di comunicare al somministratore i trattamenti retributivi applicabili ai lavoratori comparabili;
-assunzione da parte dell'utilizzatore, in caso di inadempimento del somministratore, dell'obbligo di pagamento diretto al lavoratore del trattamento economico nonché del versamento dei contributi previdenziali, fatto salvo il diritto di rivalsa del somministratore.

Il già citato art. 21 dispone anche che tutte le informazioni sopra indicate, nonché la data di inizio e la durata prevedibile dell'attività lavorativa presso l'utilizzatore, devono essere comunicate per iscritto al lavoratore, da parte del somministratore al momento della stipulazione del contratto di lavoro, ovvero nel momento in cui il lavoratore sia inviato presso l'utilizzatore.
L'art. 27 D.Lgs. 276/2003 precisa che in mancanza di uno degli elementi sopra indicati con le lettere a, b, c, d, e il lavoratore può chiedere al Giudice la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell'utilizzatore, con effetto dall'inizio della somministrazione.

Somministrazione lavoro - casi in cui è vietato

Casi nei quali casi è vietato il contratto di somministrazione
Il contratto di somministrazione è vietato nei seguenti casi:
- per la sostituzione di lavoratori in sciopero;
da parte di imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi per la sicurezza sul lavoro ai sensi dell'art. 4 del D.Lgs. n. 81/2008;
- presso unità produttive in cui si sia proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi degli articoli 4 e 24 della Legge 23 luglio 1991 n. 223, che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni a cui si riferisce il contratto di somministrazione (salvo deroghe sindacali);
- presso imprese in cui siano in corso sospensioni di rapporti o riduzione dell'orario di lavoro con diritto al trattamento di integrazione salariale (Cassa integrazione guadagni) che interessino lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione (salvo deroghe sindacali);
- da parte di imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi per la sicurezza sul lavoro ai sensi dell'art. 4 del D.Lgs. n. 81/2008.

La Legge 191/2009 (finanziaria 2010) ha notevolmente limitato la portata del divieto di utilizzo della somministrazione da parte di imprese in crisi (ultimi due punti) consentendo la possibilità di ricorrere a tale istituto per provvedere alla sostituzione di lavoratori assenti oppure in caso di assunzione di lavoratori dalle liste di mobilità (art. 8 L. 223/91) o ancora nel caso in cui il contratto di somministrazione abbia una durata iniziale (sic) inferiore a tre mesi.

Il D.Lgs. 276/2003 prevede, inoltre, il caso di somministrazione "fraudolenta" (art. 28), cioè la somministrazione "posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo"; in questo caso, al somministratore e all'utilizzatore sono applicate sanzioni penali (art. 18) e una sanzione di 20 euro per ciascun lavoratore coinvolto per ogni giorno di somministrazione.

Somministrazione lavoro - introduzione

La somministrazione di lavoro è stata introdotta per la prima volta nel nostro ordinamento dal D.Lgs. 276/2003.
L'introduzione dell'istituto della somministrazione comporta l'abrogazione della Legge 1369/1960 (divieto di intermediazione e interposizione di manodopera) e degli articoli da 1 a 11 della 196/1997 in materia di lavoro interinale.
L’attività di somministrazione potrà essere esercitata da soggetti abilitati (denominati agenzie di somministrazione iscritti ad un apposito albo.
Le agenzie di somministrazione potranno costituirsi in forma di società di capitali o cooperativa, dovranno avere la disponibilità di uffici e di personale adeguato e gli amministratori e i soggetti responsabili dovranno rispondere a determinati requisiti di onorabilità.
A seconda del tipo di attività svolta, le agenzie di somministrazione dovranno avere un capitale sociale minimo e saranno vincolate al versamento di un deposito cauzionale a titolo di garanzia.
La somministrazione, un po' come avveniva per il lavoro interinale, introduce uno schema "triangolare" nel rapporto di lavoro tra i seguenti soggetti: il somministratore, l'utilizzatore e il/i lavoratore/i.
Per tutta la durata della somministrazione, infatti, i lavoratori svolgono la loro attività alle dipendenze dell’agenzia di somministrazione ma nell'interesse e sotto la direzione ed il controllo dell'azienda utilizzatrice.
La somministrazione si caratterizza, quindi, per la scissione tra la titolarità del rapporto di lavoro (che fa capo all’agenzia somministratrice) e l’effettiva utilizzazione del lavoratore che compete all’utilizzatore.
Il contratto di somministrazione di lavoro può essere concluso a termine o a tempo indeterminato; la somministrazione a tempo indeterminato è stata, infatti, reintrodotta dalla Legge 191/2009 (finanziaria 2010).
Il ricorso alla somministrazione di lavoro a tempo indeterminato é ammesso in relazione ad una serie di attività quali i servizi di consulenza e assistenza nel settore informatico, i servizi di pulizia, custodia, portineria, trasporto, la gestione di biblioteche, parchi, musei, archivi, magazzini, servizi di economato e così via. In ogni caso la contrattazione collettiva ha la facoltà di individuare altre ipotesi. La L. 191/2009 ha esteso tale facoltà anche alla contrattazione territoriale o aziendale e ha introdotto la possibilità di ricorrere allo staff leasing in tutti i settori produttivi, pubblici e privati, per l'esecuzione di servizi di cura e assistenza alla persona e di sostegno alla famiglia.
La somministrazione a tempo determinato è ammessa a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all'ordinaria attività dell'utilizzatore.
Dovrà comunque trattarsi di ragioni eccezionali e transitorie, e quindi sostanzialmente temporanee.
La ragione che giustifica questo tipo di somministrazione non deve essere fine a se stessa, ma deve spiegare l’utilizzazione di un lavoratore fornito da un somministratore in luogo di un lavoratore direttamente assunto dall’utilizzatore e deve essere coerente con il principio che il lavoro somministrato è finalizzato a creare occupazione aggiuntiva (coerentemente con il principio, ex art. 1 D.Lgs. 276/2003).
Il rapporto di lavoro tra somministratore e prestatore è soggetto alla disciplina di cui al D.Lgs. 368/2001. L’individuazione dei limiti quantitativi di utilizzazione della somministrazione a tempo determinato è affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi.
Il contratto di somministrazione deve essere stipulato in forma scritta e contenere, a pena di nullità, una serie di indicazioni (tra l'altro, gli estremi dell'autorizzazione rilasciata al somministratore, il numero dei lavoratori da somministrare, i casi di ammissibilità che consentono il ricorso alla somministrazione, l'indicazione della presenza di eventuali rischi per l'integrità e la salute del lavoratore e delle misure di prevenzione adottate, nonché la data di inizio e la durata prevista dal contratto di somministrazione).
In mancanza di forma scritta, il lavoratore dovrà necessariamente venir considerato a tutti gli effetti alle dipendenze dell'utilizzatore. Inoltre, il somministratore deve comunicare per iscritto al lavoratore, all'atto della stipulazione del contratto di lavoro, tutte le informazioni relative al rapporto di cui egli è oggetto e che sono state sopra menzionate.
Il lavoratore somministrato ha diritto a un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello dei dipendenti di pari livello dell'utilizzatore, a parità di mansioni svolte.
Inoltre, è prevista la responsabilità solidale dell'utilizzatore con il somministratore per la corresponsione dei trattamenti retributivi e previdenziali.
Il lavoratore ha diritto altresì a fruire di tutti i servizi sociali ed assistenziali di cui godono i dipendenti dell'utilizzatore addetti alla medesima unità produttiva, ma non viene computato nell'organico dell'utilizzatore (fatta eccezione per l'applicazione delle norme in materia d'igiene e sicurezza sul lavoro), per esempio ai fini della reintegrazione prevista dall'art. 18 della Legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori).
In ogni caso, quando la somministrazione di lavoro avviene al di fuori dei limiti e delle condizioni previste dal decreto, il lavoratore può rivolgersi al Giudice del lavoro per ottenere la formalizzazione del rapporto alle dirette dipendenze dell'utilizzatore.

E' possibile licenziare un lavoratore perché ammalato?

Il nostro ordinamento è particolarmente attento alla salute ed ai problemi che ne derivano. Infatti, l'art. 32 della Costituzione definisce la salute come diritto fondamentale dell'individuo e come interesse della collettività. Con riguardo ai rapporti di lavoro, l'art. 2110 del codice civile dispone che, in caso di malattia (oltre che di infortunio, gravidanza o puerperio), il rapporto di lavoro viene sospeso e che il datore di lavoro può licenziare il lavoratore malato solo quando sia scaduto il termine di conservazione del posto (cosiddetto termine di comporto) appositamente previsto dai contratti collettivi. In altre parole, il lavoratore non può essere licenziato per il semplice fatto di essere malato. Si capisce dunque che diventa prioritario verificare la durata del termine di comporto disciplinato dal contratto.

Di solito, il contratto distingue due ipotesi: il comporto secco, ovvero il termine di conservazione del posto nel caso di un'unica malattia di lunga durata, e il comporto per sommatoria, ovvero il termine di conservazione del posto nel caso di più malattie. Tuttavia, anche se quella appena indicata appare una normativa di garanzia a favore del lavoratore, si capisce che, scaduto il termine di comporto, il lavoratore può essere licenziato anche se effettivamente e seriamente malato. Per ovviare a questo inconveniente, spesso i contratti collettivi di lavoro introducono un altro istituto, quello della aspettativa non retribuita: per un periodo massimo indicato dal contratto, il rapporto di lavoro può proseguire, sia pur in assenza della retribuzione, anche oltre il termine di comporto. Si tratta di un istituto molto importante, tanto che alcune sentenze hanno dichiarato illegittimo il licenziamento intimato per superamento del termine di comporto, se il datore di lavoro non ha preventivamente comunicato al lavoratore la facoltà di fruire della citata aspettativa.

Pertanto, il lavoratore che sia seriamente malato e che, approssimandosi la scadenza del periodo di comporto, non può tornare al lavoro, può fruire dell'istituto di cui si è detto. Il datore di lavoro non può rifiutare l'aspettativa, a mano che dimostri la sussistenza di seri motivi impeditivi alla concessione della stessa.

Può il datore di lavoro, nel corso del rapporto di lavoro, modificare le mansioni del dipendente?

L’art. 2103 c.c. stabilisce che il lavoratore debba essere addetto alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito, ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte. In altre parole, il lavoratore non può essere adibito a mansioni inferiori; in caso contrario, il comportamento del datore di lavoro può essere impugnato avanti il Giudice del lavoro, al fine di ottenere l'accertamento dell'intervenuta dequalificazione e la conseguente riassegnazione a mansioni equivalenti, ovvero adeguate e corrispondenti alla professionalità acquisita.

Inoltre, costituisce principio ormai acquisito dalla giurisprudenza che una dequalificazione o addirittura la totale sottrazione di ogni mansione si riflettano sull'immagine professionale del lavoratore e quindi sul suo "valore" sul mercato del lavoro, determinando perciò un danno di tipo professionale. La giurisprudenza ha ripetutamente ritenuto risarcibile il danno alla professionalità, conseguentemente riconoscendo, in via equitativa, un risarcimento pari a una somma corrispondente a circa la metà delle retribuzioni percepite dal lavoratore nel corso del periodo di dequalificazione. In alcuni casi è stato anche accertato che il demansionamento, traducendosi in una sofferenza fisico-psichica, abbia prodotto danni alla salute del dipendente. In casi come questi, dopo che è stato rigorosamente provato il nesso di causalità tra il comportamento illegittimo del datore di lavoro e la malattia (da accertare in genere mediante apposita consulenza tecnica medica), è stato anche riconosciuto il diritto al risarcimento del danno biologico, liquidato sempre in via equitativa.

Praticanti avvocati: non si paga la tassa al primo anno di iscrizione

(Agenzia delle Entrate, risoluzione 11/10/2010, n. 103/E - Valter Marchetti)



La tassa per l’iscrizione al primo anno nel registro speciale dei praticanti avvocati (art. 8, comma 1, R.D.L. n. 1578/1933) non è dovuta per carenza dei presupposti di applicazione, mentre l’iscrizione all’albo per gli anni successivi al primo determina l’esercizio di una “professione” con conseguente applicabilità della tassa sulle concessioni governative.

Il presupposto per l’applicazione della tassa sulle concessioni governative è, quindi, l’esercizio di una “professione”. Si allega l'intero della risoluzione dell'Agenzia delle Entrate in oggetto.

Le irregolarità in tema di sicurezza sul lavoro provocano la revoca del bonus occupazione

(Cassazione, Sentenza 22.10.2010 n. 21698)

Con ricorso notificato il 27 febbraio 2009 all’Ufficio di Tivoli dell’AGENZIA delle ENTRATE (depositato il 17 marzo 2009), la STUDIO LEGALE C.(associazione professionale) – premesso che detto Ufficio aveva notificato ad esso un provvedimento di revoca del “credito d’imposta... detratto in compensazione per gli anni d’imposta 2001-2002” affermando che non era stato “in grado di esibire” al proprio personale “la documentazione riguardante la normativa della sicurezza sul lavoro L. n. 626 del 1994” -, in forza di due motivi, chiedeva di cassare la sentenza n. 112/35/07 della Commissione Tributaria Regionale del Lazio (depositata il 16 gennaio 2008) che aveva rigettato il suo appello avverso la decisione (329/28/05) della Commissione Tributaria Provinciale di Roma la quale aveva respinto il ricorso con il quale aveva dedotto che il provvedimento era stato emesso “sulla base di una falsa applicazione della L. n. 388 del 2000, art. 7”, e che “nella fattispecie contestata... si trattava di mera violazione formale”....

E' vero che durante la malattia il lavoratore deve restare presso il proprio domicilio?

L'art. 5 della L. 20 maggio 1970 n. 300 (lo Statuto dei lavoratori), prevede la possibilità che il datore di lavoro svolga accertamenti in ordine alla malattia del dipendente; tale previsione ha trovato concreta applicazione con la legge 638/83, che ha introdotto le cosiddette fasce orarie di reperibilità, ovvero gli orari nell'ambito dei quali il lavoratore malato deve restare presso il proprio domicilio per consentire lo svolgimento della visita: 10.00-12-00 e 17.00-19.00 di tutti i giorni in cui si protrae la malattia, compresi i festivi. Le visite possono essere effettuate solo da medici inviati dall'Usl o dall'Inps, e non direttamente dal datore di lavoro, che deve solo inoltrare la richiesta agli organismi indicati. Nel caso in cui la visita sia effettuata dal soggetto autorizzato negli orari sopra indicati, ma il lavoratore non venga reperito al proprio domicilio, il medico dovrà lasciare al lavoratore un avviso con invito a presentarsi il giorno successivo presso l'Usl competente, salvo che si tratti dell'ultimo giorno di malattia. In ogni caso, l'assenza alla visita domiciliare comporta la perdita del trattamento di malattia a carico dell'Inps per il periodo antecedente alla visita, fino ad un massimo di 10 giorni.

Nel caso di assenza dalla visita domiciliare di controllo, l'eventuale comminazione di sanzioni disciplinari da parte del datore di lavoro, in aggiunta alla sanzione prevista dalla legge, sarà legittima solo nel caso in cui sia espressamente prevista dal contratto collettivo di lavoro. Peraltro, entrambe le conseguenze sopra indicate (perdita del trattamento di malattia e sanzione disciplinare) potranno verificarsi solo quando l'assenza del lavoratore risulti ingiustificata. La giurisprudenza ha ritenuto costituire giustificato motivo di assenza il fatto di essersi recati dal proprio medico di fiducia per ragioni attinenti la malattia. Peraltro è bene precisare come alcune sentenze ritengano giustificata l'assenza solo nel caso in cui l'orario di visita ambulatoriale del medico di fiducia coincida con le fasce di reperibilità.