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A quali condizioni è possibile licenziare un lavoratore in prova?

l principio secondo cui il lavoratore può essere licenziato solo ricorrendo una giusta causa o un giustificato motivo non vale nei confronti del lavoratore in prova. Infatti, durante il periodo di prova, entrambe le parti possono recedere liberamente, senza neppure essere tenute al pagamento del preavviso.

Tuttavia, la possibilità di recedere liberamente dal rapporto in prova da parte del datore di lavoro è più apparente che reale, dal momento che la giurisprudenza ha elaborato alcune regole, ormai acquisite, che limitano questa facoltà. In primo luogo, bisogna che il patto di prova sia stato stipulato legittimamente. A tale fine, è necessario che il patto risulti per iscritto, che sia stato esplicitamente sottoscritto per accettazione dal lavoratore e che sia o precedente o contestuale all'inizio del rapporto. In mancanza di questi requisiti, il patto di prova sarebbe nullo; il rapporto di lavoro sarebbe sorto a tempo indeterminato e, pertanto, il lavoratore potrebbe essere licenziato solo in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo. In altri termini, in assenza di un legittimo patto di prova, il licenziamento intimato per mancato superamento della prova sarebbe illegittimo.

In secondo luogo, il datore di lavoro ha l'obbligo di consentire l'esperimento che costituisce l'oggetto della prova. Conseguentemente, il datore di lavoro deve consentire che l'esperimento duri un lasso di tempo minimo, benché non espressamente pattuito, e deve effettivamente assegnare al lavoratore le mansioni per cui era stata stipulata l'assunzione in prova. In caso contrario, il licenziamento sarebbe, ancora una volta, illegittimo. Anche la mancata indicazione scritta in ordine alle mansioni specificamente assegnate al lavoratore, e sulle quali verterà la prova, determina la illegittimità del recesso di cui si parla.

Infine, la discrezionalità del datore di lavoro è limitata alla valutazione delle capacità e del comportamento professionale del lavoratore in prova; da ciò consegue che il lavoratore potrà far accertare la illegittimità del licenziamento in prova dimostrando sia di aver superato positivamente la prova, sia che il licenziamento dipende esclusivamente da un motivo illecito.

In ogni caso, la libertà di licenziamento del lavoratore in prova viene meno allo spirare del termine della prova, e comunque dopo che siano decorsi sei mesi dall'inizio del rapporto: infatti, spirato il termine, l'assunzione diviene definitiva e il datore di lavoro tornerà a soggiacere alle regole della giusta causa e del giustificato motivo.

Va anche segnalato che con la sentenza n. 402 del 17/1/98, la Corte di cassazione ha ulteriormente esteso l’ambito del controllo da parte del giudice sul licenziamento intimato dal datore di lavoro nel corso del periodo di prova. Infatti, richiamando alcuni precedenti della Corte costituzionale (tra cui la sentenza n. 189 in data 22/12/80), la Suprema Corte ha escluso la legittimità del licenziamento inflitto per un motivo estraneo al rapporto di lavoro. In altre parole, il lavoratore non è più tenuto a dimostrare che il licenziamento sia fondato su un motivo illecito, essendo invece sufficiente provare che il motivo del recesso, pur non essendo illecito, è estraneo al rapporto di lavoro; a questo punto il giudice, se ritiene non giustificato il motivo del licenziamento, deve dichiararne la illegittimità.

PescaraLavoro - CONVENZIONE PROVINCIA-CONSULENTI DEL LAVORO

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Art. 411. (Processo verbale di conciliazione)

Se la conciliazione riesce, si forma processo verbale che deve essere sottoscritto dalle parti e dal presidente del collegio che ha esperito il tentativo, il quale certifica l'autografia della sottoscrizione delle parti o la loro impossibilita' di sottoscrivere.
Il processo verbale e' depositato a cura delle parti o dell'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione e' stato formato. Il giudice , su istanza della parte interessata, accertata la regolarita' formale del verbale di conciliazione, lo dichiara esecutivo con decreto.
Se il tentativo di conciliazione si e' svolto in sede sindacale, il processo verbale di avvenuta conciliazione e' depositato presso l'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione a cura di una delle parti o per il tramite di un'associazione sindacale. Il direttore, o un suo delegato, accertatane la autenticita', provvede a depositarlo nella cancelleria del tribunale (1) nella cui circoscrizione e' stato redatto. Il giudice , su istanza della parte interessata, accertata la regolarita' formale del verbale di conciliazione, lo dichiara esecutivo con decreto.

Il Periodo di Comporto

Durante la malattia il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto per il tempo determinato dalla legge, dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità. Decorso tale termine, il datore di lavoro ha diritto di recedere dal contratto, dando il regolare preavviso.

Il termine di conservazione del posto è praticamente stabilito dai contratti collettivi che in generale ne fissano la durata a seconda dell'anzianità di servizio oppure della qualifica. Tale periodo si chiama comporto, del quale esistono due tipi.

Il Comporto "secco" è il periodo massimo di conservazione del posto in presenza di un'unica malattia ed è previsto da tutti i contratti collettivi. Il Comporto per sommatoria è il periodo massimo di conservazione del posto in presenza di più episodi morbosi. Anche esso di norma è determinato dai contratti collettivi; in caso contrario, il periodo deve essere determinato dal giudice in via equitativa.

Vediamo come si calcola il periodo di comporto, ossia quali assenze incidono o meno nella sua determinazione. Il problema si pone sia riguardo ad assenze equiparabili alla malattia (es. malattia a causa di gravidanza), sia ad assenze cadenti a ridosso o inframezzate a giornate di malattia.

Periodi computabili nel comporto: giorni non lavorativi (sabato, domenica, festività infrasettimanali) che cadono nel periodo di assenza per malattia; giorni di sciopero che cadono nel periodo di assenza per malattia; assenze per cure termali retribuite fruite in periodo extraferiale.

Periodi non computabili nel comporto: assenze per malattia imputabile al datore di lavoro, in quanto derivante dalla nocività dell'ambiente di lavoro, in violazione del dovere di sicurezza; assenze per malattia dell'invalido dovuta allo svolgimento di mansioni incompatibili con il suo stato; in generale, per previsione collettiva, le assenze per infortunio e malattia professionale; periodi di assenza di malattia a causa di gravidanza o puerperio.

Maturazione dell'anzianità durante il comporto. Durante la malattia l'anzianità matura regolarmente. Pertanto si ritiene che, allo stesso modo, possa maturare, per il decorso dell'anzianità, uno scaglione di comporto superiore, temporalmente più lungo di quello dell'inizio della malattia.
Per i lavoratori affetti da tubercolosi la durata del comporto è fissata dalla legge in 18 mesi dalla data di sospensione del rapporto, oltre a 4 mesi successivi alla dimissione dal sanatorio (imprese con meno di 16 dipendenti) e 6 mesi dalle dimissioni per le imprese con più di 16 dipendenti .
La determinazione equitativa, basata sull'art. 1374 c.c., deve fissare i seguenti termini:
- il periodo massimo che, frutto della sommatoria delle diverse assenze per malattia, permette la conservazione del posto (c.d. termine interno). In generale la giurisprudenza fa coincidere questo termine con il periodo previsto dal CCNL per il comporto "secco";

- l'arco temporale massimo entro cui collocare il periodo precedente (c.d. termine esterno).

Licenziamento alla fine del comporto: scaduto il periodo di comporto, il datore di lavoro può legittimamente licenziare il lavoratore anche in costanza di malattia.

Effetti del licenziamento illegittimo. Prospettiamo due ipotesi:

- il licenziamento viene intimato quando il comporto è ancora in corso: in tale caso esso, secondo la giurisprudenza, è non solo inefficace ma nullo ed impugnabile nel termine di 60 giorni dalla ricezione della comunicazione;

- il licenziamento non viene intimato tempestivamente: in tal caso il licenziamento è illegittimo e scattano a favore del lavoratore la tutela reale della reintegrazione o quella obbligatoria della riassunzione, a seconda delle dimensioni aziendali.
Il licenziamento deve essere intimato per iscritto, con il rispetto dei termini di preavviso e con pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso, in caso di licenziamento durante la malattia. Il datore di lavoro, nell'intimare il licenziamento deve indicarne i motivi o, in caso contrario, darne comunicazione successiva al lavoratore. Di conseguenza i periodi di assenza non contestati nella comunicazione non devono essere considerati ai fini del calcolo del superamento del comporto.

Richiesta di aspettativa. Diversi contratti collettivi prevedono che, cessato il periodo di comporto, il lavoratore abbia diritto ad un periodo di aspettativa non retribuita, durante la quale gli viene conservato il posto di lavoro. Tutti gli aspetti di questo istituto vengono regolamentati dai CCNL (condizioni, modalità e termine per la richiesta, durata, frazionabilità, ecc.).☺

Che cosa succede se il licenziamento risulta privo di giusta causa o di giustificato motivo

Il licenziamento comminato da un datore di lavoro nei confronti di un singolo lavoratore incorre in particolari conseguenze qualora tale provvedimento manchi di una giusta causa o un giustificato motivo. Le conseguenze dell’illegittimità di tale licenziamento comunque non sono sempre le stesse. In proposito, occorre infatti distinguere a seconda che il licenziamento sia stato intimato ove si applichi la c.d. tutela reale prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ovvero la tutela obbligatoria prevista dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966 (e successive modificazioni).
Mentre, infatti, l’art. 18 Stat. Lav. prevede l’annullabilità del licenziamento intimato in assenza di giusta causa o giustificato motivo, la legge 604/1966 prevede che il licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo, ancorché illegittimo, non venga dichiarato dalla legge annullabile, pur se espone il datore di lavoro a conseguenze sanzionatorie.
Per una migliore comprensione, val la pena precisare che si applicano o l’una o l’altra disciplina a seconda della dimensione aziendale del datore di lavoro.
Orbene, la c.d. tutela reale, prevista dall’art. 18 Stat. Lav. si applica nei confronti dei datori di lavoro, imprenditori o non imprenditori, che occupino più di quindici dipendenti nell’unità produttiva nella quale è occupato il lavoratore licenziato oppure nell’ambito dello stesso comune; e in ogni caso ai datori di lavor che abbiano alle proprie dipendenze globalmente più di sessanta lavoratori, indipendentemente dal frazionamento organizzativo delle unità produttive.
Entro questo ambito di applicazione, il giudice con sentenza che annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Inoltre, il medesimo giudice dovrà condannare il datore di lavoro al risarcimento del danno patito dal lavoratore, liquidando al lavoratore un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali; in ogni caso la misura di tale risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto.
E’, inoltre, facoltà del lavoratore esercitare la c.d. opzione, che consiste nel richiedere, al posto della reintegrazione, la corresponsione di un’indennità pari a 15 mensilità (da sommarsi a quanto dovuto a titolo di risarcimento).

La c.d. tutela obbligatoria è, invece, prevista dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, così come sostituito dall’art. 2 della legge n. 108 del 1990, e si applica ai datori di lavoro privati, imprenditori e non, che occupino alle loro dipendenze fino a quindici lavoratori.
In tale ipotesi, quando il giudice accerti con sentenza che non ricorrano gli estremi del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo intimato dal datore di lavoro, quest’ultimo è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro tre giorni oppure a risarcire il danno da questi patito, versandogli un’indennità di importo compreso tra 2,5 e 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti.
Peraltro, tale indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore a dieci anni, e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore a 20 anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.
Nell’ipotesi di tutela obbligatoria, quindi, la scelta tra la riassunzione o il pagamento del risarcimento del danno spetta al datore di lavoro e ciò manifesta la rilevante differenza fra la tutela obbligatoria (che fa nascere a carico del datore di lavoro l’obbligazione alternativa fra la riassunzione e la corresponsione di un’indennità risarcitoria) e la tutela reale (ove esiste comunque un’obbligazione a carico del datore di lavoro di reintegrare nel posto di lavoro).

E' possibile licenziare più di una volta per lo stesso motivo?

Preliminarmente, bisogna distinguere a seconda che si tratti di un licenziamento disciplinare o di diversa natura.

Normalmente, il caso del lavoratore licenziato più volte per lo stesso fatto si verifica in relazione a mancanze disciplinari del lavoratore. In simili ipotesi, la giurisprudenza ammette, sia pure non univocamente, la possibilità di reiterare il licenziamento ma a condizione che il precedente sia stato dichiarato nullo dalla Autorità giudiziaria per vizi di forma; talvolta, si pretende anche la revoca del precedente recesso.

Come si è visto, all'origine della reiterazione del licenziamento disciplinare sta di solito un vizio formale. Infatti, la legge (art. 7 Statuto dei lavoratori) prevede una articolata procedura che il datore di lavoro deve seguire prima di sanzionare la mancanza di un lavoratore. Il datore di lavoro, accertata la mancanza, deve contestare il fatto al lavoratore, invitandolo a presentare, nel termine di 5 giorni, le proprie difese, eventualmente con la assistenza di un rappresentante sindacale. La mancanza imputata al lavoratore non può essere contestata tardivamente nè in maniera generica. Se il lavoratore non si giustifica, ovvero il datore di lavoro non accoglie le giustificazioni presentate, potrà essere adottata la sanzione ritenuta equa e proporzionata alla mancanza commessa.

Qualora la procedura sopra descritta venisse violata in tutto o in parte, si verificherebbe un vizio formale che, ledendo il principio di difesa del lavoratore incolpato, renderebbe nulla la sanzione inflitta. In casi come questi, dunque, di regola si ammette la possibilità di intimare un nuovo licenziamento, ovviamente rimuovendo il vizio in cui si era precedentemente incorsi, e sempre previa revoca del precedente recesso.

Al di fuori dell'ipotesi di cui si è prima parlato, non è possibile duplicare il potere disciplinare esercitandolo più volte. Per esempio, se è già stata inflitta una certa sanzione per una certa mancanza, il datore di lavoro non può nuovamente contestare lo stesso fatto e infliggere una seconda sanzione, magari più grave. Nè è possibile, dopo che il licenziamento disciplinare sia stato annullato dalla Autorità giudiziaria per motivi diversi dai vizi di forma (per esempio, perchè il fatto contestato è falso, o di gravità tale da non giustificare il recesso), riaprire la procedura disciplinare e intimare un secondo licenziamento. Lo stesso deve dirsi nel caso di licenziamento intimato per altre ragioni (ad esempio, soppressione del posto di lavoro o riduzione di personale): il licenziamento, impugnato dal dipendente e annullato dalla Magistratura, non può più essere intimato allo stesso lavoratore per le stesse ragioni.

E' possibile revocare le dimissioni?

Le dimissioni hanno effetto quando giungono a conoscenza del datore di lavoro; conseguentemente, da quel momento non possono più essere revocate senza il consenso del datore di lavoro (Cassazione 20/11/90 n. 11179).

Tuttavia, se questa è la regola generale, sono state individuate alcune ipotesi in cui è possibile annullare le dimissioni, con conseguente ripristino del rapporto, a prescindere dal consenso del datore di lavoro. In primo luogo, sono annullabili le dimissioni rassegnate in un momento in cui il lavoratore versava in uno stato di incapacità di intendere e di volere. E' stato anche precisato che, a tal fine, non è necessaria la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive: basta la menomazione di esse, in modo tale, quanto meno, da impedire la formazione di una volontà cosciente (Cass. 5/4/91 n. 3569). Nel caso di lavoratore minorenne (le cui dimissioni sono astrattamente valide in quanto il Codice civile attribuisce al minore la capacità di compiere atti giuridici nell'ambito del rapporto di lavoro), le dimissioni possono essere annullate qualora si dimostri l'incapacità di fatto di intendere e di volere del lavoratore al momento del recesso, nonché il grave pregiudizio derivante al minore dall'atto compiuto. Un'altra ipotesi ricorre allorquando le dimissioni siano rassegnate a seguito di pressioni esercitate da datore di lavoro e configurabili alla stregua di violenza morale. Ciò si verifica, per esempio, se il datore di lavoro prospetta al lavoratore le dimissioni come alternativa al licenziamento o alla denuncia penale; più in generale, l'ipotesi ricorre se il datore di lavoro prospetta le dimissioni come alternativa all'esercizio di un proprio diritto e se, da tale minaccia, il datore di lavoro si proponga di ottenere vantaggi ingiusti (vedere per tutte Tribunale di Milano 14/2/90, che ha dichiarato l'annullabilità delle dimissioni rese dal lavoratore convinto di poter evitare l'arresto da parte dei carabinieri chiamati dal datore di lavoro).

Un'ultima ipotesi è configurabile in caso di dolo del datore di lavoro: se, cioè, il lavoratore è stato indotto alle dimissioni, che altrimenti non avrebbe rassegnato, da una falsa rappresentazione delle realtà o opera, appunto, del datore di lavoro.

In sintesi, una volta rassegnate, le dimissioni producono il loro naturale effetto, salvo che ricorra una delle ipotesi indicate e si possa fornirne una prova rigorosa, oppure il datore di lavoro acconsenta alla revoca.