Si richiama l'attenzione sulle sottostanti decisioni della Cassazione  su questioni  di lavoro e legislazione sociale  connotate da specificita' e rilevanza.

Sentenza 21 gennaio 2013, n. 1309

Pubblico impiego - Lavoro subordinato - Interruzione del rapporto di lavoro - Licenziamento dipendente pubblico - Omissione di informazioni circa l'incompatibilità con l'incarico - Sussiste.

La Corte  ha  confermato  sussistente la giusta causa del licenziamento stante le non contestate cariche ricoperte dal L.F.
all'epoca dell'assunzione ed indicate nella lettera di contestazione disciplinare, incompatibili con la carica di dipendente pubblico, e che lo
stesso L. aveva taciuto all'atto della sua assunzione traendo in tal modo in  errore l'ente datore di lavoro; inoltre la Corte napoletana ha rilevato che la considerazione contenuta nella lettera di licenziamento secondo cui il  dipendente non ha rimosso la situazione di incompatibilità neppure in epoca  successiva all'assunzione, è stata operata solo ad colorandum senza modificare  in alcun modo il contenuto della contestazione originaria.

- Sentenza 21 gennaio 2013, n. 1311

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento - Giusta causa - Comunicazione aziendale - Natura riservata - Inoltrata a rappresentanti sindacali - Divieto di divulgazione a terzi - Sussiste.

Con l'unico motivo si lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto, con riferimento all'art. 2105 cod. civ. ed alle norme del contratto collettivo nazionale di lavoro. In particolare si deduce che la corte territoriale avrebbe errato nel ritenere la natura riservata del documento aziendale inviato dal ricorrente non contenendo alcun elemento riconducibile a strategie aziendali, mentre la dicitura "riservato" apposta in calce al documento stesso costituirebbe una mera clausola di stile. Inoltre i sindacalisti destinatari della comunicazione non potrebbero essere considerati soggetti terzi. In ordine all'interpretazione analogica delle norme contrattuali in materia di licenziamento per giusta causa, si deduce che l'ipotesi in esame non sarebbe in alcun modo assimilabile alla rivelazione di segreti industriali; inoltre la corte d'appello non avrebbe accertato l'elemento soggettivo dell'azione, cioè la volontà del lavoratore di violare il segreto aziendale.

E' pregiudiziale la questione dell'inamissibilità del ricorso per violazione dell'art. 366 bis c.p.c.

Invero il ricorrente P. ha omesso la formulazione del quesito di diritto, richiesta a pena di inammissibilità nei casi di impugnazione per i motivi di cui ai numeri da 1 a 4 dell'art. 360 c.p.c.,pertanto si dichiara il ricorso inammissibile.

Sentenza 21 gennaio 2013, n. 1329

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento per giusta causa - Permesso retribuito - Cure termali - Dipendente pedinato da investigatori privati - Mancata prova della presenza del lavoratore in un luogo diverso dallo stabilimento termale - Non sussiste.

Le censure si risolvono, nella sostanza, nell'affermazione della sussistenza delle ragioni poste a fondamento del recesso datoriale, senza spiegare quali siano gli errori di diritto commessi dal giudice del merito, ed il ricorrente, piuttosto, valorizza diversamente gli elementi considerati dalla Corte territoriale per affermare una differente ricostruzione dei fatti.

Con le stesse si propone niente più che una diversa valutazione degli elementi attinenti al comportamento della lavoratrice, sostenendosi, ai fini dell'esame della giusta causa del recesso, la contraddittorietà della motivazione nella parte in cui ha ritenuto che non fosse emersa la prova certa della assenza giustificata della stessa dal lavoro, per non essersi recata presso il centro termale, contrapponendosi alla ricostruzione che aveva escluso la sussistenza dell'addebito contestato la propria versione dei fatti. Al riguardo deve osservarsi che, attesa la rilevanza del solo vizio di motivazione, le censure mirano a sollecitare una rivisitazione del merito, non consentita nella presente sede di legittimità, posto che il ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi di motivazione della sentenza, impugnata a norma dell'art. 360 n. 5 cod. proc. civ., deve contenere - in ossequio al disposto dell'art. 366 n.4 cod. proc. civ., che per ogni tipo di motivo pone il requisito della specificità sanzionandone il difetto - la precisa indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione o il capo di essa censurato, ovvero la specificazione d'illogicità, consistenti nell'attribuire agli elementi di giudizio considerati un significato fuori dal senso comune, od ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, quindi l'assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l'insanabile contrasto degli stessi. Ond'è che risulta inidoneo allo scopo il far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito all'opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'iter" formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame. Diversamente, si risolverebbe il motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 n.5 cod. proc. civ. in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito; cui, per le medesime considerazioni, neppure può imputarsi d'aver omesso l'esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacché né l'una né l'altra gli sono richieste, mentre soddisfa l'esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo (in tali termini, cfr. Cass. 23 maggio 2007 n. 120520). Nella specie non risulta che la doglianza abbia evidenziato i profili di omissione, insufficienza o contradittorietà della motivazione nei termini consentiti nella presente sede, indicati dalla pronunzia di legittimità richiamata

Alla stregua delle indicate considerazioni, deve pervenirsi al rigetto del ricorso.
Sentenza 22 gennaio 2013, n. 1456

Lavoro autonomo e lavoro subordinato - Estinzione del rapporto di lavoro - Mobilità - Detrazione dell'indennità di mobilità dal risarcimento del danno - Non sussiste.

Il quesito formulato dalla società ricorrente, come sopra riportato, deve
infatti trovare risposta nel principio più volte affermato da questa Corte (cfr.
ex plurimis Cass. n. 4677/2006) secondo cui l'obbligo risarei torio commisurato
alla retribuzione non determina l'automatica equivalenza del risarcimento ai
compensi retributivi perduti, poiché l'automatismo è invece escluso ove si
accerti che il danno del lavoratore (derivante dalla perdita della retribuzione)
si è ridotto in misura corrispondente ad altri compensi percepiti per
prestazioni lavorative svolte - nel periodo considerato - presso altri datori di
lavoro (c.d. aliundepercepitati).

Benché in passato la Corte abbia talvolta negato il proprio potere di
pronunciare su questioni assorbite (a sulle quali i giudici di merito non si
siano comunque pronunciati) e di decidere nei merito quando questo comporti la
soppressione di un grado di giudizio (Cass. n, 4804/2007, Cass. n. 6784/2003,
Cass. n. 15808/2002), più recentemente questa stessa Corte, rimeditando il
problema, ha statuito che, alla luce dei principi di economia processuale e
della ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell'art. 111
Cost., nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell'attuale art. 384
c.p.c, ispirata a tali principi, qualora i giudici di merito non si siano
pronunciati su una questione di mero diritto, ossia non richiedente nuovi
accertamenti di fatto, e la stessa venga riproposta in sede di legittimità, la
Corte, una volta accolto il ricorso e cassata la sentenza impugnata, può
decidere la questione purché su dì essa si sia svolto il contraddittorio nella
stessa fase di cassazione, dovendosi ritenere che l'art. 384, comma secondo,
c.p.c., come modificato dall'art. 12 della legge n. 40 del 2006, attribuisca
alla Corte di cassazione una funzione non più soltanto rescindente, ma anche
rescissoria, e che la perdita del grado di merito resti compensata con la
realizzazione del principio di speditezza (Cass. n. 25023/20H, Cass. n.
2Alla stregua dei principi che sono stati sopra indicati (punto 24), e tenendo conto delle deduzioni avanzate dalle parti nei rispettivi scritti difensivi, deve pertanto ritenersi che il risarcimento del danno spettante ai lavoratori deve essere diminuito degli importi da essi ricevuti a titolo di retribuzione dalla società Ali A. nel periodo intercorrente tra la data della notifica de! ricorso introduttivo (che la Corte di merito ha individuato quale dies a quo dell'insorgenza dell'obbligo di pagamento a carico della A. Servizi) e la data della sentenza dichiarativa del fallimento della stessa società Ali A..

Dal risarcimento del danno non possono invece essere detratti gli importi percepiti dai lavoratori a titolo di indennità di mobilità, posto che, secondo l'orientamento di questa Corte (cfr. ex plurimis Cass. n. 18687/2006, Cass. n. 18137/2006), può considerarsi compensativo del danno arrecato al lavoratore con il licenziamento (o, come in questo caso, a seguito della mancata riammissione in servizio) non qualsiasi reddito percepito dal medesimo, ma solo quello conseguito attraverso l'impiego della medesima capacità lavorativa.

Sulle somme dovute a titolo di risarcimento del danno decorrono gli interessi legali e la rivalutazione monetaria in base alle regole generali dettate in materia di crediti di lavoro dagli artt. 429 c.p.c. e 150 disp. att. cp.c.4914/2011, Cass. n. 15778/2011, Cass. n. 5139/2011, Cass. n. 2313/2010).