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Dequalificazione professionale e risarcimento del danno solo se provata: Cassazione – Sentenza 25 febbraio 2019, n. 5431 –

La Corte di Cassazione torna sul tema della dequalificazione professionale del lavoratore e della responsabilità del datore di lavoro sulla preclusione all'acquisizione di una maggiore capacità professionale e ulteriori possibilità di guadagno del lavoratore stesso.

La violazione degli obblighi di tutela della professionalità, della salute e della personalità morale dei lavoratori si identificano come inadempimento contrattuale da cui non ne deriva "automaticamente" l’esistenza del danno risarcibile che possono anche coesistere l’una con l’altra, ma con conseguente necessità di specifica allegazione e prova da parte di chi assume di essere stato danneggiato.
La prova del danno da demansionamento e dequalificazione professionale dev'essere oggettivamente provata con fatti che attestino l’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità (perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno). 
Ma questo pregiudizio non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l’esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all’esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo. Nella stessa logica anche della perdita di chance, ovvero delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività.


Fatti di causa

1. La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 8320 pubblicata il 5.9.13, in parziale accoglimento dell’appello proposto da S.S.L. s.p.a. e in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha respinto la domanda di risarcimento del danno patrimoniale alla professionalità proposta da D.S.G., confermando le statuizioni di risarcimento del danno morale ed esistenziale.

2. La Corte di merito, per quanto ancora rileva, respinte le eccezioni di nullità ed inammissibilità del ricorso in appello, ha considerato “acclarata, come già affermato dal primo giudice, l’inattività in cui è stato posto il D.S. a far tempo dal gennaio 2003”, sottolineando come la società avesse solo genericamente contestato tale circostanza. Ha quindi confermato la pronuncia di primo grado quanto alla “responsabilità del datore di lavoro per la dequalificazione professionale subita dal ricorrente”.

3. Ha ritenuto che mancassero, tuttavia, specifiche allegazioni e prove sul danno professionale avente natura patrimoniale, dedotto dallo stesso lavoratore come danno in re ipsa, ed ha respinto la domanda del lavoratore di risarcimento di tale voce di danno.

4. Ha confermato la sentenza di primo grado quanto al capo di condanna al risarcimento del danno morale ed esistenziale, sul rilievo che la società appellante non avesse formulato specifiche censure al riguardo.

5. Avverso tale sentenza, ha proposto ricorso per cassazione il D.S., affidato a due motivi, cui ha resistito con controricorso e ricorso incidentale, anch’esso articolato in due motivi, la S.S.L. s.p.a.. Il D.S. ha depositato controricorso al ricorso incidentale e successiva memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Ragioni della decisione

1. Col primo motivo di ricorso il D.S. ha dedotto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 434 e 342 c.p.c., per non avere la Corte di merito dichiarato l’inammissibilità dell’appello proposto dalla società in quanto privo dell’esposizione sommaria dei fatti e della specificazione dei motivi di impugnazione, essendosi limitata la società a riprodurre le contestazioni già avanzate nella memoria costitutiva in primo grado; ha osservato come il Tribunale avesse accertato, ai sensi degli artt. 1218, 1321, 1372 c.c., il grave inadempimento della società all’obbligo di far svolgere al dipendente le mansioni dedotte in contratto nonché la sussistenza del danno professionale sulla base di indici presuntivi legati alla durata e alla gravità del comportamento datoriale; ha rilevato come la società appellante non avesse specificamente censurato tali aspetti della sentenza, essendosi limitata a contestare l’applicabilità al rapporto subordinato di lavoro sportivo dell’art. 2103 c.c., norma da cui il Tribunale aveva dichiarato di poter prescindere. Ha quindi sostenuto come la Corte di merito avesse erroneamente omesso di dichiarare inammissibile l’appello e, comunque, avesse riformato i capi della sentenza non oggetto di specifica impugnativa, violando il principio di corrispondenza tra il devoluto e il riformato.

2. Col secondo motivo il D.S. ha censurato la sentenza, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1226, 2087 e 2103 c.c.; violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2 e 4 Cost., dell’art. 3 Cost.e dell’art. 65, R.D. n. 12 del 1941. Ha inoltre dedotto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti circa la sussistenza di un demansionamento connotato da particolare gravità, durata e intensità.

3. Ha sostenuto come nel ricorso introduttivo di primo grado, pur essendo stato invocato il risarcimento del danno in re ipsa, fossero stati comunque allegati una serie di elementi di fatto, specificamente trascritti alle pagine 33 – 36 del ricorso in esame, atti a fondare una prova presuntiva del danno professionale, legati alla brillante carriera del D.S. e alla successiva completa inattività a cui il predetto era stato costretto dal gennaio 2003.

4. Ha censurato la sentenza d’appello per essersi discostata dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 7963 del 2012; n. 11430 del 2006; n. 4766 del 2006; n. 10 del 2002; n. 6265 del 1995) nel non considerare la forzata inattività di per sé quale fonte di danno ed ha dedotto l’omesso esame del fatto demansionamento allegato dal lavoratore e non contestato dalla società. Ha criticato la sentenza d’appello per non aver considerato che il danno da demansionamento, nelle sue componenti patrimoniale e non patrimoniale, potesse essere dimostrato, e fosse stato dimostrato nel caso di specie, per via presuntiva, ai sensi dell’art. 2729 c.c.. Ha ravvisato la violazione dell’art. 3 Cost. per essersi la Corte d’appello discostata dalla giurisprudenza (Cass. n. 7667 del 2013) che in casi di forzata inattività ha riconosciuto “la mortificante perdita di professionalità e di immagine professionale”, così realizzando un trattamento difforme di casi simili. Ha chiesto che fosse sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 360 c.p.c.. nella parte in cui sembra non consentire più il ricorso per cassazione per motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria, per contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost. che impongono la parità di trattamento e l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali.

5. Il primo motivo di ricorso principale, con cui è denunciata la violazione degli artt. 342 e 434 c.p.c., previamente riqualificato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., non appare fondato.

6. La Corte d’appello ha respinto l’eccezione di nullità e inammissibilità del ricorso della società sul rilievo che lo stesso contenesse “specifici ed articolati motivi di censura alla sentenza impugnata sia con riferimento alle eccezioni preliminari che alle questioni di merito (cfr. motivi spiegati nei capitoli da 1 a 4)”.

7. L’appello proposto dalla società, riassunto a pag. 9 del ricorso in esame, censurava (punto n. 4), oltre alla “inapplicabilità dell’art. 2103 c.c. al rapporto dedotto in giudizio”, anche “la mancanza della prova del danno”, con l’ulteriore specificazione che il danno dovesse “in ogni caso … essere parametrato in misura minima alla retribuzione”.

8. Come riportato nel ricorso per cassazione (pag. 19), la società appellante, sul tema del risarcimento del danno, aveva argomentato: “si sottolinea l’assoluta indecifrabilità del ricorso di primo grado e conseguentemente della determinazione del giudice di prime cure la dove si richiede, senza minimamente specificarne la fonte, somme a titolo di risarcimento del danno patrimoniale e non, da calcolarsi per entrambe le voci sulla base della retribuzione mensile del ricorrente. Si ribadisce come si versi nel caso di specie al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 2103 c.c. e dell’art. 13 St. Lav. e si richiama a tal fine quel consolidato orientamento della Corte di Cassazione che richiede ai fini della risarcibilità la prova del danno derivante dal demansionamento”. A supporto di tali argomenti, il ricorso in appello aveva richiamato l’orientamento di legittimità (Cass. n. 1026 del 1997) secondo cui è possibile il risarcimento del danno da dequalificazione professionale “sempre che il lavoratore, sul quale ricade il relativo onere, fornisca prova dell’effettiva sussistenza di tale danno, la quale costituisce il presupposto indispensabile anche per la sua liquidazione equitativa”.

9. La Corte d’appello ha “accolto il motivo di appello relativo al danno professionale, attesa la mancanza al riguardo di specifiche allegazioni, avendo il ricorrente (in primo grado, ndr.) dedotto la sussistenza del lamentato danno in re ipsa”.

10. Occorre considerare che il ricorso in appello proposto dalla società risale al 2006 (depositato il 25.5.06) ed era quindi disciplinato dagli artt. 342 e 434 c.p.c. nella versione anteriore alle modifiche introdotte dal D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012.

11. Questa Corte (sentenza n. 21745 del 2006; 12984 del 2006) ha più volte affermato come il principio della necessaria specificità dei motivi di appello – previsto dall’art. 342, comma primo, c.p.c., e, nel rito del lavoro, dall’art. 434, comma primo, c.p.c., nella formulazione anteriore alla novella operata dall’art. 54, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134 – prescinda da qualsiasi particolare rigore di forme, essendo sufficiente che al giudice siano esposte, anche sommariamente, le ragioni di fatto e di diritto su cui si fonda l’impugnazione, ovvero che, in relazione al contenuto della sentenza appellata, siano anche indicate, oltre ai punti e ai capi formulati e seppure in forma succinta, le ragioni per cui è chiesta la riforma della pronuncia di primo grado, con i rilievi posti a base dell’impugnazione, in modo tale che restino esattamente precisati il contenuto e la portata delle relative censure. E’ pertanto inammissibile l’atto di appello che, senza neppure menzionare per sintesi il contenuto della prima decisione, risulti totalmente avulso dalla censura di quanto affermato dal primo giudice e si limiti ad illustrare la tesi giuridica già esposta in primo grado.

12. Si è ulteriormente precisato (Cass. n. 25218 del 2011; Cass., SU., n. 28057 del 2008) come, ai fini della specificità dei motivi d’appello richiesta dall’art. 342 c.p.c., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno del gravame, possa sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, purché ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice.

13. Nel caso di specie, e sulla base del contenuto del ricorso in appello, correttamente riportato dall’attuale ricorrente in cassazione, appare infondata la censura di omessa declaratoria di inammissibilità dell’appello posto che la società, anche attraverso la riproposizione degli argomenti spesi in primo grado, aveva chiaramente censurato la statuizione adottata dal Tribunale in punto di risarcimento del danno, adducendo il difetto di prova del danno da demasionamento, patrimoniale e non patrimoniale, rivendicato dal lavoratore.

14. Il motivo di impugnazione accolto dalla Corte d’appello attiene non al difetto di prova del demansionamento, che anzi la Corte di merito ha accertato in ragione della inattività in cui il D.S. era stato lasciato, bensì alla mancanza di prova, e delle necessarie allegazioni, del danno patrimoniale da demansionamento, quale elemento logicamente distinto dalla condotta illegittima, e nel caso di specie dedotto dallo stesso lavoratore come danno in re ipsa. Il ricorso in esame sembra, invece, perpetuare una certa confusione laddove considera non censurato dalla società appellante il ragionamento del primo giudice nella parte in cui aveva ravvisato un grave demansionamento e determinato il quantum di risarcimento, senza tuttavia soffermarsi sulla prova del danno.

15. Deve quindi escludersi non solo il vizio di mancata specificità dei motivi di appello ma anche qualsiasi ultrapetizione della sentenza di secondo grado.

16. Sul secondo motivo di ricorso, nella parte in cui censura la pronuncia d’appello per non aver ritenuto provato per presunzioni il danno patrimoniale alla professionalità, occorre svolgere alcune precisazioni.

17. Questa Corte (cfr. Cass., S.U. 6572 del 2006; Cass., S.U., n. 26972 del 2008), data la peculiarità del rapporto di lavoro cui ineriscono gli obblighi posti dagli artt. 2103 e 2087 c.c., ha qualificato come inadempimento contrattuale la violazione degli obblighi di tutela della professionalità, della salute e della personalità morale dei lavoratori; ha tuttavia precisato (cfr. anche Cass. 25743 del 2018; n. 1327 del 2015; n. 19785 del 2010) come dall’inadempimento datoriale non derivi automaticamente l’esistenza del danno, non potendosi quest’ultimo ravvisare immancabilmente a causa della potenzialità lesiva dell’atto illegittimo. Deve quindi ribadirsi la distinzione tra “inadempimento” e “danno risarcibile” secondo gli ordinari principi civilistici di cui agli artt. 1218 e 1223 c.c., quindi tra il momento della violazione degli obblighi di cui agli artt. 2087 e 2103 c.c. e quello della produzione del pregiudizio, nei differenti aspetti che lo stesso può assumere. Ciò proprio in ragione del fatto che dall’inadempimento datoriale possono derivare, astrattamente, una pluralità di conseguenze lesive per il lavoratore (danno professionale in senso patrimoniale, danno biologico, danno all’immagine o alla vita di relazione, sintetizzati nella locuzione danno cd. esistenziale), che possono anche coesistere l’una con l’altra, con conseguente necessità di specifica allegazione e prova da parte di chi assume di essere stato danneggiato.

18. La prova del danno da demansionamento e dequalificazione professionale può essere data dal lavoratore anche ai sensi dell’art. 2729 c.c., attraverso l’allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, potendo a tal fine essere valutati la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (Cass. n. 25743 del 2018; n. 19778 del 2014; n. 4652 del 2009; n. 29832 del 2008).

19. Con particolare riferimento al danno professionale di natura patrimoniale, si è precisato (SU. n. 6572 del 2006) come lo stesso possa consistere sia nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno. Ma questo pregiudizio non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l’esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all’esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo. Nella stessa logica anche della perdita di chance, ovvero delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività.

20. La Corte di merito si è attenuta ai principi appena enunciati nel momento in cui ha addossato al lavoratore l’onere di allegazione e prova degli indici presuntivi del danno patrimoniale subito in conseguenza della inattività durata per circa un anno ed ha ritenuto non adeguatamente assolto tale onere, sul rilievo che lo stesso lavoratore avesse espressamente formulato la domanda risarcitoria come relativa ad un danno in re ipsa; circostanza quest’ultima riconosciuta nel ricorso principale in esame che, peraltro, nel fare riferimento alla allegazione, comunque, di “una serie di elementi di fatto concatenati e noti”, ai fini della prova presuntiva del danno patrimoniale, descrive la carriera del D.S. fino al 2003, prima come calciatore poi come allenatore e infine come responsabile del settore giovanile alle dipendenze della S.S.L., senza in alcun modo evidenziare le conseguenze negative, in termini di perdita di professionalità in relazione al tipo di attività svolta o di possibilità di reperimento di nuovi lavori, connesse all’accertato inadempimento datoriale.

21. Né può trovare ingresso in questa sede di legittimità la censura della sentenza d’appello per non aver ritenuto provato per presunzioni il danno patrimoniale alla professionalità, in quanto volta a criticare la valutazione delle prove come operata dal giudice di merito, peraltro secondo uno schema non conforme al nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., (cfr. Cass., S.U., n. 8053 del 2014) applicabile ratione temporis (sentenza d’appello del 5.9.2013).

22. Parimenti inammissibile è la censura di omesso esame del fatto di demansionamento, invece ampiamente analizzato nella sentenza d’appello e ritenuto dimostrato in ragione della protratta inattività del D.S..

23. Non è utilmente invocata dal ricorrente principale la sentenza di questa Corte n. 7963 del 2012 che definisce il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente non solo in contrasto con l’art. 2103 c.c. ma al tempo stesso “lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza (e tale da) comporta(re) una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo”, in quanto tali aspetti ineriscono tipicamente al danno non patrimoniale, nella componenti di danno morale ed esistenziale, separatamente riconosciute nella sentenza impugnata.

24. Non vi è spazio per configurare una violazione dell’art. 3 Cost. sul presupposto dell’avvenuta liquidazione del danno patrimoniale alla professionalità in altre fattispecie oggetto di sentenze di legittimità, per difetto di identità delle situazioni concrete a confronto.

25. Né può trovare accoglimento l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 360 c.p.c. in quanto prospettata in modo assolutamente generico.

26. Si esamina ora il ricorso incidentale,

27. Col primo motivo di ricorso incidentale, la S.S.L. s.pa. ha censurato la sentenza, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e per insufficiente motivazione.

28. Ha anzitutto sostenuto come la Corte di merito, nel richiamare per relationem la pronuncia di primo grado, abbia omesso di indicare le ragioni della conferma di detta pronuncia previo esame dei motivi di impugnazione proposti, sì da rendere non comprensibile il percorso logico giuridico seguito.

29. Ha poi censurato la sentenza d’appello per aver ravvisato un demansionamento nonostante i numerosi inadempimenti posti in essere dal D.S. ed il rifiuto del predetto di adeguarsi alle regole poste dalla nuova dirigenza.

30. Col secondo motivo di ricorso incidentale la società ha dedotto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione degli artt. 1175, 1375, 1223, 1226, 2059, 2087, 2103, 2697, 2727, 2729 c.c. e degli artt. 113, 115, 116 c.p.c., per avere la Corte di merito erroneamente considerato non contestate da parte della società le statuizioni di primo grado in tema di risarcimento del danno non patrimoniale e per avere, comunque, liquidato tale danno in assenza delle necessarie allegazioni e prove incombenti sul lavoratore.

31. Il primo motivo non può trovare accoglimento nella parte in cui denuncia un vizio di motivazione insufficiente in ragione dell’applicabilità del nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. (sentenza d’appello del 5.9.13) che limita il sindacato di legittimità sulla motivazione al minimo costituzionale, con la conseguenza che l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di qualsiasi rilievo del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass., SU., n. 8053/14).

32. La censura in esame, nella parte in cui critica la sentenza d’appello per aver ravvisato un demansionamento nonostante gli inadempimenti del lavoratore, afferisce al merito ed è come tale inammissibile in questa sede. Peraltro la Corte d’appello ha accertato l’inattività a cui fu costretto il D.S. a far data dal gennaio del 2003 ed ha valutato come generiche e prive di riscontri le allegazioni della società sulla condotta inadempimente del predetto.

33. Neppure il secondo motivo di ricorso incidentale può trovare accoglimento.

34. La Corte territoriale, nel confermare la pronuncia di primo grado quanto al risarcimento del danno morale ed esistenziale, ha valutato le censure mosse col ricorso in appello come sostanzialmente inidonee a scalfire le argomentazioni poste a base della decisione del Tribunale quanto alla sussistenza del danno ed ai criteri di liquidazione adottati. La sentenza di primo grado, riprodotta per estratto nel ricorso principale, aveva motivato l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno morale per “la lesione della dignità, della personalità morale e della stessa immagine professionale del D.S. … tanto più grave alla luce della stessa eco che la vicenda ha avuto nell’opinione pubblica”. L’affermazione contenuta nella sentenza d’appello (“la società appellante non ha formulato nell’atto di gravame specifiche censure alle statuizioni con cui il primo giudice ha affermato la sussistenza del danno ed ha provveduto alla sua liquidazione”) non sottende una pronuncia di inammissibilità del motivo di appello, peraltro esclusa in premessa ed in relazione all’intero ricorso dalla Corte territoriale, bensì una valutazione di merito di sostanziale infondatezza della censura per la sua genericità.

35. Le residue censure mosse col secondo motivo di ricorso incidentale, sebbene formulate come violazione di legge, in quanto volte di fatto a sollecitare una nuova valutazione delle prove sono, come tali, inammissibili in questa sede, anche in ragione del nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.

36. Per le considerazioni finora svolte, il ricorso principale e quello incidentale devono essere respinti.

37. In ragione della reciproca soccombenza, si compensano integralmente le spese del giudizio di legittimità.

38. Si dà atto della sussistenza, nei confronti dei ricorrenti principale e incidentale, dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012 n. 228.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale; compensa le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e incidentale, a norma del comma 1 bis del medesimo art. 13.

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