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IL MOBBING

La parola mobbing è entrata nell’uso comune grazie al premio Nobel Konrad Lorenz (1903-1989) l’etologo che la coniò nei primi anni ’70 per descrivere il comportamento di alcune specie di animali che assalgono, circondandolo, un proprio simile costringendolo ad abbandonare il gruppo. Ma è solo dopo il lavoro di ricerca dello psicologo svedese Heinz Leymann, sulla fine degli anni ’80, che il termine mobbing assume l’accezione attuale e cioè “una comunicazione ostile, non etica, diretta in maniera sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un singolo”.
Scopo principale del mobbing è l’allontanamento dal posto di lavoro della vittima, cercando di costringerla a dare le dimissioni ed evitando così il ricorso al licenziamento. Per definire una situazione di mobbing aziendale occorre quindi essere in presenza di una serie di atti vessatorî e prolungati nel tempo (almeno sei mesi) che producono nella vittima conseguenze negative di carattere psicologico (depressione, perdita di fiducia in se stessi, problemi di relazioni, in casi limite addirittura il suicidio) e anche fisiche (malattie psicosomatiche, ulcere, indebolimento delle difese immunitarie, ecc.). Quindi il mobbing, per essere riconosciuto come tale, deve ricondursi a una violenza psicologica (talvolta si arriva persino alla violenza fisica) che ha il carattere di sistematicità e intenzionalità.
Si parla di mobbing verticale quando i comportamenti vessatorî provengono dai superiori della vittima, mentre si ha mobbing orizzontale quando le vessazioni sono originate dai colleghi.
Nel caso il mobbing sia una vera e propria strategia aziendale (ad es., per allontanare personale in esubero a seguito di una fusione tra società) si parla di bossing.

Per attuare in concreto il mobbing vengono impiegati diversi comportamenti che fanno leva sull’autostima della vittima che viene minata fino a giungere all’ansia, alla depressione e alla sensazione di isolamento, di essere sola di fronte alle ingiustizie subite. Tra le tecniche più diffuse si possono citare: la sottrazione sistematica di mansioni di responsabilità (dequalifica del lavoro fino a livelli considerati umilianti), l’esclusione dai processi aziendali (decisionali, operativi), l’aumento di richiami e rimproveri anche per le questioni più banali, il rifiuto sistematico di richieste varie (permessi, ferie, materiale per lavorare meglio, ecc.). Il tutto per acuire nel vessato la sensazione di ostilità e isolamento, per indurlo a presentare le dimissioni.
Le motivazioni che spingono a esercitare il mobbing sono tra le più disparate: si va dall’antipatia nei confronti del vessato a comportamenti legati a mancanza di rispetto nei confronti di appartenenti a minoranze (stranieri, soggetti diversamente abili, ecc.), a ritorsioni vere e proprie per dipendenti che hanno manifestato dissenso, che hanno scoperto e denunciato magagne e inefficienze dell’azienda o che si sono rifiutati di piegarsi a richieste ingiuste, immorali (come, per es., nel caso di avances sessuali) o addirittura illecite.

Difendersi dal mobbing non è semplice per la stessa natura subdola del fenomeno e perché l’onere della prova ricade sulla vittima del mobbing. Se i comportamenti di colui che mette in atto il mobbing non sono riconducibili a fattispecie previste dal codice (lesioni volontarie, minacce, abuso d’ufficio, ecc.) occorre provare il nesso tra questi comportamenti e l’effettivo danno patito dalla vittima. Già si è detto del limite temporale: occorre dimostrare che il mobbing, oltre che sistematico (e quindi non a carattere episodico), è durato oltre 6 mesi e che ha prodotto conseguenze negative sulla vittima. Queste conseguenze sono principalmente di natura psicologica (ansia, depressione, ecc.) e vanno documentate con certificati medici emessi da psicologi iscritti all’Albo Professionale. Naturalmente anche le eventuali patologie derivate direttamente dalla situazione di mobbing vanno documentate con certificati medici.

Ricerche recenti hanno evidenziato che in Italia circa un milione di persone sono interessate, a vari livelli di gravità, dal fenomeno mobbing. In parte ciò è dovuto al fatto che in Italia, per via della legislazione vigente, è molto più difficile licenziare o trasferire il personale dipendente. Per questo motivo, il mobbing assurge a modalità largamente diffusa per ottenere l’allontanamento di personale non desiderato senza cadere nelle difficoltà burocratiche legate ai licenziamenti senza giusta causa. Naturalmente il mobbing, se viene riconosciuto in sede di tribunale, è fonte di responsabilità civile che genera, nell’azienda colpevole di mobbing, l’obbligo di risarcimento del danno biologico (più difficile il riconoscimento del danno morale o esistenziale, anche se la recente giurisprudenza si sta orientando anche verso questa direzione).

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