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Esistono forme particolari di tutela per le lavoratrici nel caso di licenziamento collettivo?

Da tempo il legislatore italiano ha avvertito l'esigenza di predisporre particolari forme di tutela a favore delle donne lavoratrici, e ciò a fronte dell'evidente situazione di svantaggio che le stesse si trovano, da sempre, ad affrontare nel mondo del lavoro. Inizialmente la normativa in materia aveva essenzialmente una funzione di protezione (ad esempio vietando forme di discriminazione per quel che riguarda il salario - art. 37 della Costituzione -, ovvero stabilendo forme di tutela rafforzate in caso di maternità: L. 1204/71). Più recentemente, invece, il legislatore si è attivato al fine conseguire una reale promozione del ruolo della donna nei luoghi di lavoro, non solo reprimendo le discriminazioni, dirette o indirette, ma introducendo anche strumenti di promozione dell'occupazione femminile e dell'eguaglianza sostanziale delle donne nel lavoro.

Questa è la finalità che persegue la L. 125/1991, nota come la legge sulle "azioni positive". Tale legge, mentre ha sicuramente sancito principi di particolare importanza, non ha però dato i risultati sperati in sede di applicazione pratica, rendendo dunque necessari ulteriori interventi legislativi, volti a superare tale carenza sul piano concreto. In particolare, si deve ricordare come una disposizione normativa di ancor più recente emanazione abbia riguardato il problema dei licenziamenti collettivi. Si tratta dell'art. 6 comma 5 bis della L. 19 luglio 1993 n. 236 che, integrando la normativa vigente in questa materia (disciplinata dalla L. 223/91), ha introdotto una disposizione diretta a prevenire forme di discriminazione sessuale nell’ambito - appunto - dei licenziamenti collettivi: "L'impresa non può altresì collocare in mobilità una percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale di manodopera femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazione".

Ciò significa, per fare un esempio, che se, nella società che ha disposto la mobilità, una certa mansione è svolta da 20 persone di cui 10 donne, la collocazione in mobilità (ovvero il licenziamento), nell'ambito degli addetti a tale mansione, non potrà riguardare una percentuale di lavoratrici di sesso femminile superiore al 50%, ovvero a quella delle donne impiegate nella mansione di riferimento. In questo caso, dunque, la riduzione di personale dovrà colpire sia uomini che donne, in misura corrispondente alla proporzione esistente tra gli addetti a tale mansione.

Inoltre, nel caso in cui la società abbia sede in Lombardia, si dovrà tenere conto anche di quanto stabilito nella delibera della Commissione Regionale per l'Impiego (CRI) della Lombardia n. 244 del 25.5.1994, in forza della quale il datore di lavoro è tenuto a comunicare alla commissione stessa l'avvenuto rispetto, nella scelta dei lavoratori da collocare in mobilità, del criterio sopra indicato, consentendo così un controllo pubblico del comportamento aziendale.

Qualora le disposizioni sopra indicate non venissero rispettate, la lavoratrice interessata potrà agire in giudizio per ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento e, conseguentemente, la reintegrazione in servizio ed il risarcimento del danno.

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