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Effetti della mancata impugnazione del licenziamento

Con sentenza n. 2676 del 5 febbraio 2010, la Cassazione ha affermato che la mancata impugnazione del provvedimento di licenziamento nel termine perentorio dei 60 giorni, preclude sia il reintegro in azienda che l’ordinaria azione di risarcimento del danno; precisando che, il breve termine di decadenza (60 giorni) è stabilito a garanzia della certezza della situazione di fatto pertanto, il decorso di tale termine impedisce al dipendente di far accertare in sede giudiziale l’illegittimità del recesso che è il presupposto fondamentale per la richiesta di indennizzo.
Il caso ha riguardato due lavoratori dipendenti della S.p.A. Rete Ferroviaria Italiana che, sono stati licenziati, con decorrenza dal 31.12.1998, in base ad accordi fra l’azienda e le organizzazioni sindacali, in quanto ritenuti personale “eccedente”. I lavoratori chiedevano al tribunale di primo grado di stabilire l’illegittimità dei licenziamenti per mancato rispetto delle regole procedurali previste dalla legge n. 223/91 per i licenziamenti collettivi, la condanna della società alla reintegra nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno ai sensi dell’art.18 Statuto dei lavoratori o, in mancanza, al risarcimento dei danni in base alle regole generali previste dell’art. 1218 c.c.
Il Tribunale, pur ritenendo inapplicabile l’art. 18 St. Lav. (per mancata impugnazione dei licenziamenti nel termine di 60 giorni previsto dalla legge n. 604/66), accertava l’illegittimità dei licenziamenti e condannava l’azienda al risarcimento dei danni in base all’art. 1218 c.c. Decisione che veniva confermata in appello.
La Suprema Corte, nel riprendere un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato afferma invece che: “la mancata impugnazione del licenziamento nel termine fissato, non comporta la liceità del recesso del datore di lavoro bensì preclude al lavoratore soltanto la possibilità di reintegra nel posto di lavoro ed il risarcimento ai sensi della L.300/70 (Statuto dei lavoratori). Ne consegue che in caso di decadenza dall’impugnazione, il lavoratore può solo chiedere il risarcimento in base ai principi generali, sempre che ne ricorrano i presupposti.”
In un simile contesto, costituendo l’inadempimento il fatto generatore della pretesa risarcitoria, la tutela si risolve in una questione di scelta della norma da applicare ossia, lo statuto dei lavoratori o le norme del codice civile.
Secondo gli ermellini, il “vigente ordinamento prevede per la risoluzione del rapporto di lavoro una disciplina speciale, del tutto diversa da quella ordinaria, i cui connotati di specialità e di imperatività mal si conciliano con una libertà di scelta per le parti tra regime ordinario e regime speciale nelle aree in cui il licenziamento deve essere necessariamente sorretto da specifiche ragioni.
Nel quadro di questo speciale regime, e nelle relative aree, il legislatore ha previsto un termine breve di decadenza (sessanta giorni) per l’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore (art. 6 legge 604/66 ed art. 5, co. 3, legge 223/91) a garanzia della certezza della situazione di fatto determinata dal recesso datoriale, ritenendo tale certezza valore preminente rispetto a quello della legittimità del licenziamento”.
Ne consegue che al lavoratore che non abbia impugnato nel termine di decadenza suddetto licenziamento è precluso il diritto di far accertare in sede giudiziale la illegittimità del recesso e di conseguire il risarcimento del danno, nella misura prevista dalle leggi speciali (art. 8 legge 604/66 ed art. 18 legge 223/91). Se tale onere non viene assolto dal lavoratore, peraltro, il Giudice non può conoscere della illegittimità del licenziamento neppure per ricollegare al recesso conseguenze risarcitorie di diritto comune.
Nell’area dei licenziamenti disciplinati dalla normativa speciale, invece, l’azione risarcitoria di diritto comune può essere esercitata, in via alternativa, soltanto previa tempestiva impugnazione del licenziamento.
Pertanto, conclude la corte, “la decadenza impedisce al lavoratore di richiedere il risarcimento del danno secondo le norme codicistiche ordinarie, nella misura in cui non consente di far accertare in sede giudiziale la illegittimità del licenziamento. In particolare, sul piano della responsabilità contrattuale, poiché l’inadempimento (nella specie, il dedotto recesso illegittimo) costituisce presupposto del risarcimento dovuto dal contraente inadempiente a norma dell’art. 1218 c.c., la impossibilità di tale accertamento esclude la possibilità di riconnettere al preteso inadempimento del datore di lavoro l’obbligazione risarcitoria in favore del lavoratore.
Quindi, “l’azione risarcitoria di diritto comune, può essere esercitata, anche in caso di decadenza, soltanto in via residuale per far valere profili di illegittimità del licenziamento che siano diversi da quelli previsti dalla normativa speciale sui licenziamenti, individuali o collettivi.
“Nell’area dei licenziamenti disciplinati dalla normativa speciale, l’azione risarcitoria di diritto comune può essere esercitata in via alternativa soltanto previa tempestiva impugnazione del licenziamento”.


Fonte: www.guidaaldiritto.ilsole24ore.com

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