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Ispezioni sul lavoro: le istruzioni INPS


A seguito della entrata in vigore del D.Lgs. n. 124 del 2004 in materia di riforma della attività di vigilanza ispettiva anche l’INPS, dopo il Ministero del lavoro, emana la circolare 20 settembre 2004, n. 132, atta a fornire le prime istruzioni operative per gli ispettori di vigilanza
Illustriamo i passaggi di maggiore interesse e di novità inseriti nella circolare INPS n. 132 del 20 settembre 2004 e anche nella circolare di Confindustria del 3 settembre 2004.

Coordinamento a livello territoriale

Alle direzioni regionali del lavoro è stato assegnato il compito di coordinare sul territorio regionale l’attività di vigilanza, individuando linee operative e priorità di azione sulla base delle direttive emanate dalla nuova Direzione generale, anche conformemente agli indirizzi e agli obiettivi individuati dalla Commissione centrale di coordinamento. Per lo svolgimento di tale attività, le Direzioni regionali del lavoro (Drl) e le Direzioni provinciali del lavoro (Dpl) consultano, con cadenza almeno trimestrale, le Direzioni regionali degli enti previdenziali.
L’INPS, con la circolare n. 132 del 2004 in commento, sottolinea l’importanza del coinvolgimento dei Direttori regionali e provinciali dell’INPS e dell’INAIL, attuato attraverso consultazioni e riunioni periodiche da tenersi almeno ogni tre mesi. I dirigenti interessati prospetteranno gli indirizzi forniti dalla Direzione generale INPS in materia di attività ispettive per concordare, in tale sede, le rispettive attività in modo tale da evitare duplicazioni di indagini e ottimizzare l’utilizzo delle risorse.

Razionalizzazione dell’attività di vigilanza

In attesa che la banca dati nazionale venga attivata, la circolare ministeriale n. 24/2004 (in Guida al Lavoro n. 27/2004, pag. 12) ha previsto che le informazioni, al momento, siano trasmesse tramite posta elettronica, secondo modalità da definire in sede locale. Per quanto concerne l’INPS, è in fase di predisposizione, nell’Archivio Nazionale Vigilanza, una specifica funzione, atta ad evidenziare tutte le ispezioni iniziate in un determinato periodo dagli operatori dell’Ente. Inoltre, sempre nell’Archivio Vigilanza, si sta predisponendo una particolare sezione ove far confluire le informazioni provenienti dalle Direzioni provinciali del lavoro e dagli altri Enti che svolgono attività di vigilanza. Ciò consentirà un utile scambio di informazioni fra le diverse amministrazioni ed eviterà che si verifichino quelle situazioni che hanno visto una stessa azienda essere controllata più volte ed in breve tempo da ispettori di diversi organi di controllo.
La competenza a svolgere attività ispettiva in materia previdenziale e di assistenza sociale in merito al rispetto degli obblighi previdenziali e contributivi compete anche al personale di vigilanza degli istituti previdenziali per i quali vige una contribuzione obbligatoria.
Detto personale non riveste la qualifica di agente od ufficiale di polizia giudiziaria, mantenendo solo quella di pubblico ufficiale.

Pubblico Ufficiale
Definizione

Per pubblico ufficiale si intende, a norma dell’art. 357 c.p., il soggetto che esercita una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa.

Pertanto, nel caso in cui il personale di vigilanza abbia notizia, nello svolgimento della sua attività, di un reato perseguibile d’ufficio, dovrà farne oggetto di denuncia per iscritto, ai sensi dell’art. 331 c.p.c. Restano fermi, secondo la circolare, i poteri di contestazione degli illeciti amministrativi già riconosciuti in capo a tutto il personale di vigilanza.
Vengono, pertanto, confermati i poteri già assegnati agli ispettori previdenziali (art. 13 della legge n. 638/1983 di conversione del D.L. n. 463 del 1983) di accesso ai locali, di esame delle scritture aziendali, di acquisizione delle dichiarazioni da datori e prestatori di lavoro. L’attività di vigilanza, attuata dagli ispettori previdenziali, è tesa a prevenire ed impedire atti illeciti contrari agli scopi istituzionali dell’Enti coinvolti. Tale attività, influendo sulla sfera giuridica dei soggetti sottoposti alle norme sull’assicurazione obbligatoria, assume la configurazione di attività di polizia amministrativa. L’INPS ha puntualizzato che tale attività è caratterizzata dalla potestà di porre alcune limitazioni alle libertà individuali (ad es. accedere ai locali, esaminare documenti, ispezionare cose e luoghi, ecc.) finalizzata, in base a precise disposizioni di legge, al conseguimento degli specifici scopi dell’Ente e, quindi, nelle materie concernenti la previdenza ed assistenza sociale. Dalla natura giuridica sopraindicata deriva una discrezionalità, propria delle potestà amministrative, che incontra anche essa precisi limiti nelle norme di legge che la disciplinano e nella causa dello specifico atto amministrativo (ispettivo) che deve essere sempre indirizzato allo scopo per il quale il potere è stato concesso.

Riepiloghiamo nella seguente classificazione i poteri concessi:

Potere di ispezione e di accesso - Per l’accertamento delle violazioni di competenza dell’INPS, gli Ispettori possono procedere all’ispezione di cose e luoghi diversi dalla privata dimora, in base a quanto stabilisce l’art. 13 della legge n. 689/1981. Ai fini dell’esercizio del potere di ispezione, gli ispettori possono accedere ai locali delle aziende, agli stabilimenti, ai laboratori, ai cantieri e a qualsiasi altro luogo di lavoro come negozi, esercizi pubblici, studi professionali e ai locali nei quali viene svolta un’attività lavorativa assoggettabile alle norme di legge sull’assicurazione sociale (art. 3, comma l, lett. a, legge n. 638/1983). Sono, viceversa, esclusi dal potere di accesso l’abitazione ovvero il luogo in cui una persona fisica adempie ai bisogni elementari della sua esistenza, salvo che l’interessato non presti per iscritto il proprio consenso. Tuttavia, su questo argomento la sentenza della Cassazione n. 16904/1998 ha stabilito che senza l’autorizzazione della magistratura, l’accesso nelle abitazioni dei lavoratori è vietato, anche con l’assenso degli interessati. Ad onor del vero questo indirizzo faceva riferimento a verifiche fiscali, ma potrebbe riferirsi indirettamente anche alle ispezioni del lavoro. Le conseguenze giuridiche di un’eventuale violazione del divieto sono la nullità degli atti relativi. Tuttavia è da non ritenersi mai nullo un accertamento effettuato in locali dichiarati ad uso abitativo ma utilizzati, dal contribuente, per lo svolgimento di attività commerciali, agricole o professionale.
Potere di accertamento - Il potere di accertamento consiste nell’attività di osservazione, di ricerca di notizie e prove per verificare l’esistenza dei presupposti del rapporto assicurativo, dell’obbligazione contributiva e delle prestazioni, nonché per verificare il regolare svolgimento del procedimento amministrativo di riscossione dei contributi anche nei suoi aspetti formali (adempimenti del datore di lavoro e/o del lavoratore). In base a quanto previsto dalla lettera b) del comma 10 dell’art. 3 della legge n. 638/1983, il potere di accertamento si realizza attraverso l’assunzione di dichiarazioni e notizie che possono essere richieste ai datori di lavoro, ai lavoratori, alle rappresentanze sindacali e agli Istituti di Patronato. Le dichiarazioni e le notizie sono rese dai dichiaranti con un atto scritto. Nel sottoscrivere le eventuali dichiarazioni rese, il dichiarante deve dare atto di averle lette o di averne ricevuto lettura e di confermarne il contenuto.
Potere di contestazione - Il potere di contestazione consiste, ai sensi dell’art. 14 della legge n. 689/1981, nella comunicazione della commessa infrazione al trasgressore da parte dell’Ispettore che ha proceduto all’accertamento, attraverso la notifica del verbale di accertamento. Il potere di contestazione ha fondamento nel rapporto organico esistente fra l’Ente e il suo funzionario. Egli, infatti, manifesta con la contestazione la volontà dell’Ente, emanando un provvedimento preordinato alla realizzazione di interessi specifici della pubblica amministrazione, consistente in statuizioni destinate a produrre modificazioni di situazioni giuridiche.
Potere di sequestro - L’art. 13, comma 2, legge n. 689/1981 stabilisce che: "gli organi addetti al controllo possono altresì procedere al sequestro cautelare delle cose che possono formare oggetto di confisca amministrativa, nei modi e con i limiti con cui il codice di procedura penale consente il sequestro alla polizia giudiziaria". Per effetto del richiamo espresso al citato art. 13, contenuto nel comma 5, dell’art. 35 legge n. 689/1981, si deve ritenere attribuito agli Ispettori di vigilanza dell’INPS anche il potere di sequestro, limitatamente alle cose che costituiscono la prova dell’illecito amministrativo previdenziale. Il sequestro andrà rigorosamente limitato, nei soli casi di effettiva necessità, ai documenti. Inoltre, considerato che, in base ai poteri spettanti in genere ai pubblici ufficiali, l’Ispettore stesso ha facoltà di dichiarare "conforme all’originale" la copia dei documenti. Effettuata la copia, potrà essere disposto il dissequestro ed i documenti restituiti all’interessato.

Il potere di diffida

Viene attribuito, dal comma 4, dell’art. 13, D.Lgs. n. 124/2004 il nuovo potere di diffida nei casi per i quali siano irrogabili le sanzioni amministrative. La diffida, come illustrato anche dalla circolare di Confindustria del 3 settembre 2004, n. 18107, consiste in un atto di intimazione, ossia in un formale avvertimento, con il quale gli ispettori del lavoro richiamano i destinatari di una norma all’adempimento di un obbligo legislativo perfetto, che la diffida medesima non modifica o integra in alcun modo (cfr. Cass. n. 46/1965). Ai sensi dell’articolo 13 del predetto decreto, l’Ispettore del lavoro e gli Ispettori degli enti previdenziali (questi ultimi limitatamente alle inadempienze da loro rilevate nella materia della previdenza e assistenza sociale), sono tenuti a diffidare il datore di lavoro alla regolarizzazione delle inosservanze, fissando un termine per l’adempimento. La diffida, in tali ipotesi, si risolve in un accertamento della condotta posta in essere e nell’ammissione al pagamento di una sanzione ridotta. Ed infatti, il comma 2, dell’art. 13, del D.Lgs. n. 124/2004 stabilisce che se il datore di lavoro adempie alla diffida, rimuovendo l’irregolarità nel termine prescritto dall’ispettore, sarà ammesso a pagare la sanzione nella misura minima, ovvero ridotta ad un quarto se la sanzione amministrativa è stabilita in misura fissa. Il pagamento delle sanzioni, nell’importo sopra descritto, estingue il procedimento sanzionatorio nei confronti del datore di lavoro. L’art. 13, comma 3, del D.Lgs. n. 124/2004 dispone che, a seguito della diffida, si interrompono i termini di cui all’art. 14 della legge n. 689/1981, fino al termine fissato dall’ispettore per la regolarizzazione. La predetta circolare ministeriale aggiunge che la diffida trova applicazione a decorrere dal 27 maggio 2004 ed è applicabile anche alle violazioni commesse antecedentemente a tale data.
Le istruzioni INPS - Per quanto concerne le istruzioni fornite dall’INPS, la circolare n. 132/2004 ribadisce che questo strumento sarà utilizzato a seguito di accertamento di illeciti sanabili e dai quali derivano solo sanzioni amministrative come, ad esempio, la mancata registrazione dei dati sui libri matricola e paga oppure la mancata corresponsione degli assegni al nucleo familiare (illeciti riconducibili agli articoli 14 e 35, comma 7, della legge n. 689/1981).
È comunque auspicabile che vengano risolti alcuni aspetti. È da chiarire, infatti, cosa accade se durante una visita ispettiva INPS vengono accertate, ad esempio, differenze retributive non quantificabili (un non ben definito numero di ore di straordinario non retribuito). Se l’azienda ed il lavoratore dovessero decidere di avviare presso la Direzione provinciale del lavoro (Dpl) un tentativo di conciliazione prima della notifica del verbale INPS cosa accade? Il verbale prosegue regolarmente o deve sospendersi, o deve eventualmente interrompersi solo per la materia oggetto di conciliazione? Sarebbe stato opportuno, poi, chiarire se e come potrà scattare l’istituto della diffida in caso di lavoro nero (ad esempio un lavoratore non iscritto ai libri paga e matricola e per il quale non è ancora scaduto il termine del pagamento dei contributi previdenziali). Su quest’ultimo e delicato argomento il dibattito è ancora aperto e non tutti i commentatori sono d’accordo.

Il valore probatorio dei verbali di accertamento

Di particolare rilevanza è il dettato dell’art. 10, comma 5, del D.Lgs. n. 124/2004, secondo il quale i verbali di accertamento del personale che effettua vigilanza costituiscono fonte di prova in ordine agli elementi di fatto acquisiti e documentati e possono essere reciprocamente utilizzati per la adozione di eventuali provvedimenti sanzionatori, amministrativi e civili, di competenza dei diversi organi ispettivi. Infatti, i verbali di accertamento dei diversi corpi ispettivi costituiscono fonte di prova in ordine agli elementi di fatto acquisiti e documentati e possono essere reciprocamente utilizzati dalle diverse amministrazioni al fine di adottare eventuali provvedimenti sanzionatori di competenza dei diversi organi di vigilanza (Ispettorato, INPS, INAIL, Guardia di Finanza, ecc.). La circolare ministeriale n. 24/2004 ha codificato opportunamente ed in via definitiva, un modo di operare che di fatto già è in essere. In particolare, sia l’art. 19 della legge n. 413 del 1991 sia l’art. 36 del D.P.R. n. 600 del 1973 dispongono che i soggetti pubblici incaricati istituzionalmente di svolgere attività ispettive e che a causa delle loro funzioni vengono a conoscenza di fatti che, nella fattispecie, possono configurarsi come violazioni tributarie devono comunicarli direttamente al Comando della Guardia di Finanza competente, fornendo l’eventuale documentazione atta a comprovarli. La sentenza della Cassazione n. 7832/2001, richiamata dalla stessa circolare, ha poi puntualizzato che, riferendosi a verbali di accertamento INPS, questi ultimi rientrano tra i documenti che devono essere trasmessi agli uffici finanziari, quando si profilino violazioni tributarie. Pertanto, continua la predetta sentenza, la tesi della inutilizzabilità diretta delle acquisizioni effettuate da altre amministrazioni pubbliche sarebbe in contrasto con i principi di buon andamento ed unicità della pubblica amministrazione, in quanto costringerebbe gli uffici finanziari a non utilizzare elementi conoscitivi acquisiti da altri uffici pubblici. Proprio per questo la circolare n. 24/2004 sottolinea che gli elementi acquisiti in sede di vigilanza anche da altri soggetti e riportati nei verbali di accertamento godono tutti della medesima fede privilegiata. Su quest’ultimo aspetto si sono pronunciate anche ulteriori e diverse sentenze (fra le tante le nn. 9827 e 2275/2000), le quali specificano che i verbali ispettivi sono assistiti dalla fede privilegiata che tali atti posseggono in relazione a quanto il pubblico ufficiale abbia attestato in sua presenza. Vi è da ricordare, comunque, che sull’efficacia dei verbali in sede di giudizio, l’orientamento giurisprudenziale è uniforme nello stabilire che i verbali redatti da pubblici ufficiali hanno piena efficacia e fanno piena prova dei fatti che gli stessi attestino avvenuti in loro presenza fino a querela di falso (sentenze n. 3746/1995 e n. 8659/1999). La circolare di Confindustria del 3 settembre 2004 aggiunge che il giudice può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire al verbale il valore di un vero e proprio accertamento (tra le più recenti Cass. Civile n. 10128/2003). In genere, quindi, i verbali redatti dagli ispettori del lavoro, o comunque dai funzionari degli enti previdenziali, fanno fede fino a querela di falso solo relativamente alla loro provenienza dal sottoscrittore, alle dichiarazioni a lui rese ed agli altri fatti che egli attesti come avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, mentre, per quanto riguarda le altre circostanze di fatto che egli segnali di avere accertato nel corso dell’inchiesta per averle apprese da terzi o in seguito ad altre indagini, i verbali, per la loro natura di atto pubblico, hanno un’attendibilità che può essere infirmata solo da una specifica prova contraria. È tuttavia opportuno segnalare che per alcune pronunce (Cass. n. 9963/2002) le dichiarazioni dei lavoratori assunte dai funzionari all’interno dei verbali, per assumere efficacia probatoria devono essere riconfermate in giudizio dalle persone che le hanno rese. Sulla questione viene sottolineato dall’INPS la necessità di reperire con cura tutte le informazioni utili non soltanto ai fini della corretta rilevazione delle irregolarità ma anche per renderle utili alle altre Amministrazioni. Tale puntualizzazione si rende necessaria anche perché le attuali disposizioni impediscono il reiterarsi delle indagini sulla stessa azienda. Infatti, ai sensi del decreto legge n. 318/1996 (convertito in legge n. 402/1996), nei casi di attestata regolarità ovvero di regolarizzazione conseguente all’accertamento ispettivo eseguito, gli adempimenti amministrativi e contributivi relativi ai periodi di paga anteriore alla data della verifica non possono essere oggetto di ulteriori contestazioni in successive ispezioni, salvo quelle determinate da comportamenti omissivi o irregolari del datore di lavoro o conseguenti a denunce del lavoratore. La disposizione in esame si applica anche agli atti e documenti esaminati dagli ispettori e indicati nel verbale di accertamento, nonché ai verbali redatti dai funzionari dell’Ispettorato del lavoro in materia previdenziale e assicurativa. Per tal motivo, la circolare n. 132 aggiunge che nel caso in cui l’accertamento ha un mandato limitato e quindi finalizzato a verificare solo alcune particolari irregolarità o è relativo a limitati periodi di tempo, tali ipotesi devono essere evidenziate nel verbale di accertamento. Questo vale anche per i verbali che vengono inviati all’Ente previdenziale da altre Amministrazioni.

La conciliazione

Per quanto concerne la conciliazione, l’Istituto fissa i termini di pagamento dei contributi dovuti sulle somme oggetto della conciliazione, e ricorda che, in ogni caso, i contributi stessi non possono essere inferiori a quelli calcolati sui minimali di legge. Si ritiene corretta l’interpretazione di Confindustria laddove viene illustrato che nel caso in cui la somma transattivamente stabilita risulti superiore a tale minimale di legge, l’importo concordato costituirà sempre la base imponibile, anche nel caso in cui dovesse risultare inferiore ai minimali contrattuali, determinati ex art. 1 del D.L. n. 338/1989, come convertito in legge n. 389/1989.
Le precisazioni INPS - La circolare dell’Istituto previdenziale, puntualizza, inoltre, che il momento dell’insorgenza dell’obbligo nei confronti dell’INPS coincide con la scadenza di pagamento delle somme da corrispondere al lavoratore. Pertanto, i versamenti devono essere effettuati entro il 16 del mese successivo a tale scadenza, sebbene per le modalità di versamento e per la compilazione della apposita modulistica bisogna attendere ulteriori istruzioni. Da rilevare, infine, che le somme conciliate devono essere ripartite per periodi di competenza, al fine del corretto accredito contributivo sulle posizioni individuali. Si ricorda che vengono esclusi dall’ambito applicativo della conciliazione monocratica i rapporti certificati ex art. 75 e ss. D.Lgs. n. 276/2003, delineando per essi una sorta di riserva in capo alla Commissione ex art. 410 c.p.c. Questa interpretazione non è condivisa dalla Confindustria, in quanto, così come viene spiegato nella citata circolare, l’art. 80, comma 1, D.Lgs. n. 276 del 2003, elenca in modo tassativo le cause di "impugnazione" del rapporto certificato innanzi all’autorità giudiziaria, preceduta dal consueto tentativo obbligatorio di conciliazione. Conseguentemente, queste ipotesi (erronea qualificazione del contratto, difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione, vizi del consenso) non attengono al distinto problema dell’eventuale inadempimento delle obbligazioni di natura patrimoniale derivanti dal contratto che ben potrebbero formare oggetto di conciliazione monocratica anche nel caso di rapporto certificato.

Le conseguenze dell’adesione all’interpello

L’articolo 9 del D.Lgs. n. 124/2004 ha introdotto il diritto di interpello per questioni di competenza del Ministero del lavoro e degli enti previdenziali, mutuando in parte questo istituto dallo Statuto del contribuente. Lo Statuto, ricordiamo, prevede che sia direttamente il contribuente a porre quesiti di natura fiscale, laddove vi siano obiettive condizioni di incertezza. In mancanza di risposta viene inteso che scatti il silenzio-assenso e che l’Amministrazione finanziaria concorda con la versione del contribuente. Nel caso, invece, disciplinato dal decreto di riforma dei servizi ispettivi vi sono alcune sostanziali differenze. La circolare ministeriale e quella dell’INPS confermano, soprattutto, che i quesiti devono essere posti solo da associazioni di categoria, da ordini professionali e da enti pubblici e che devono riguardare esclusivamente aspetti di carattere generale.
Viene precisato, a tal proposito, che le sedi della Direzione provinciale del lavoro (Dpl) e degli enti dovranno escludere tutte quelle domande di carattere particolare o proposte da singole aziende. Anche in questo caso si ritiene che vi siano alcune questioni da chiarire e cioè: non vengono stabiliti tempi di risposta ai quesiti stessi. Resta, quindi, il dubbio se bisogna far riferimento, come probabile, ai termini previsti dalle norme sulla trasparenza degli atti amministrativi oppure ai 120 giorni stabiliti in materia fiscale.
La circolare ministeriale n. 24 del 2004 dispone che, fermi restando gli effetti civili tra le parti e le eventuali conseguenze sul piano previdenziale, l’adesione del datore di lavoro alla risposta fornita dalla Direzione generale sarà oggetto di valutazione ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo (colpa o dolo) nella commissione degli illeciti amministrativi ai sensi dell’art. 3 della legge n. 689/1981 nonché delle applicazioni delle sanzioni civili. A parere di chi scrive la norma non è di immediata lettura. L’art. 3 della legge menzionata recita che nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa. Pertanto, ai fini della contestazione dell’illecito amministrativo non vi è differenza fra un comportamento doloso o colposo. La distinzione tra reato doloso e reato colposo è data dall’art. 43 c.p.: il delitto è doloso quando l’evento dannoso o pericoloso è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione; è colposo quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
Una ulteriore ipotesi è data dal comma 2 del medesimo articolo 3 della legge n. 689/1981. La legge in esame si occupa dell’errore sul fatto (art. 47 c.p., comma 1), da cui ne consegue che se la conoscenza del fatto è elemento costitutivo dell’imputazione dolosa e l’errore previsto dal codice penale consiste nella mancata o errata rappresentazione del fatto, ne consegue che se l’autore commette un errore avente ad oggetto il fatto illecito, egli non è punibile a titolo di dolo per mancanza di un requisito strutturale del dolo stesso. Lo spirito di tale disposizione è che la preventiva rappresentazione del fatto, pur essendo elemento costitutivo del dolo, non costituisce invece una componente strutturale della colpa. Infatti, non c’è incompatibilità tra la colpa e la previsione dell’evento: nell’ambito della struttura psicologica della colpa si suole appunto distinguere tra colpa cosciente o incosciente, a seconda che la condotta sia o meno sorretta dalla previsione del fatto. Pertanto, l’errore sul fatto esclude l’imputazione dolosa, ma non fa venir meno la punibilità a titolo di colpa nelle ipotesi di errore determinato da colpa dell’agente. In conclusione, l’errore opera come fattore che esclude l’elemento soggettivo dell’illecito qualora sia incolpevole, ossia non evitabile con l’ordinaria diligenza. Grava sul soggetto che invoca la non punibilità per mancanza dell’elemento soggettivo, l’onere di provare la sussistenza dell’errore incolpevole. Come da orientamenti giurisprudenziali, la buona fede può rilevare come causa di esclusione della responsabilità amministrativa soltanto in caso di errore incolpevole, ossia in presenza di elementi positivi estranei all’agente ed idonei ad ingenerare il convincimento sulla liceità del suo operato. Spetta, come detto, all’autore della violazione provare la sussistenza di eventuali rassicurazioni della pubblica amministrazione, tali da indurlo in errore incolpevole, ossia non evitabile con l’ordinaria diligenza.
In materia di diritto di interpello introdotto dal D.Lgs. n. 124/2004, il legislatore valuta in maniera positiva l’adesione del datore di lavoro alla risposta data dalla direzione, ma non sembra evincersi in che modo l’adesione eviti automaticamente la contestazione di illecito amministrativo. Sarà, comunque, l’ispettore a valutare in sede ispettiva la posizione del datore di lavoro, sebbene sarebbe stato forse opportuno fornire qualche indicazione in più sulle modalità operative che l’ispettore dell’INPS dovrà seguire se rileverà il ritardato o mancato adeguamento (ai fini della colpa e del dolo). Ad ogni modo, sulla base dei principi sopra elencati, dovrebbe scattare l’onere della prova da parte del datore di lavoro per evidenziare "l’errore incolpevole" al fine di evitare la contestazione dell’illecito amministrativo. Per quanto concerne, in particolare, l’Istituto previdenziale, l’interpello riguarda questioni di carattere generale su materie strettamente previdenziali e deve essere inviato dalle associazioni di categoria, da ordini professionali e dagli enti pubblici alla Direzione centrale entrate contributive solo per via telematica all’indirizzo interpello.entratecontributive@inps.it, di prossima istituzione. Fra i diversi casi prospettati vi sono il corretto inquadramento aziendale, la variazione dello stesso e l’inquadramento di attività plurime, questioni queste spesso oggetto di contenzioso (vedi prospetto con esempi di contenzioso risolti con decisioni della Cassazione).
È da evidenziare, tuttavia, che dopo l’ampliamento delle tipologie di lavoro introdotte dalla Riforma Biagi e con la possibilità degli Ispettori INPS di entrare nel merito dei rapporti di lavoro ai fini dell’assoggettamento contributivo (si veda il disconoscimento di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa trasformati in rapporti di lavoro subordinato) i quesiti ipotizzabili saranno di certo di più vasta portata.
È innegabile che il diritto di interpello esteso alle materie lavoristiche e previdenziali potrà, se ben utilizzato, favorire certamente un comportamento più uniforme su tutto il territorio nazionale da parte di quelle aziende interessate alle questioni poste in essere. Il presupposto, ovviamente, è che le risposte fornite siano chiare e rapide e che abbiano una adeguata pubblicità, anche attraverso l’emanazione di ulteriori ed apposite circolari chiarificatrici.

Interruzione dei termini prescrizionali

Dal 1° gennaio 1996 i termini per interrompere la prescrizione e per effettuare un successivo atto interruttivo, sono di 5 anni, così come disposto dalla legge n. 335/1995, art. 3, commi 9 e 10 (la legge 27 dicembre 2002 n. 289 - finanziaria 2003 - all’art. 38, comma 7, dispone che "nell’ipotesi di periodi non coperti da contribuzione risultanti dall’estratto conto, relativi all’anno 1998, il termine di prescrizione, è sospeso per un periodo di 18 mesi a decorrere dal 1° gennaio 2003").
Tale periodo, limitatamente alla contribuzione relativa alle gestioni pensionistiche obbligatorie, è poi elevato a 10 anni in presenza di denuncia del lavoratore (INPS, circolare n. 262/1995). Pertanto, il termine prescrizionale resta decennale anche dopo il 1° gennaio 1996 qualora l’azione di recupero dei contributi omessi sia iniziata a seguito di denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti. La denuncia può riguardare sia la mancata assicurazione da parte del datore di lavoro, sia il mancato versamento dei contributi dovuti. Tale particolare termine prescrizionale peraltro deve intendersi, come precisato dall’INPS, limitato solo alla contribuzione relativa al lavoratore denunciante e non può essere estesa ad altri eventuali lavoratori interessati nei cui confronti persista una analoga omissione contributiva. La denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti deve essere presentata ad una autorità competente (Istituto assicuratore, Ispettorato del Lavoro, Autorità Giudiziaria). L’INPS sottolinea la necessità per l’Istituto stesso di porre in essere, non appena venuto a conoscenza della denuncia del lavoratore, gli atti interruttivi della prescrizione nei confronti del datore di lavoro inadempiente. Ciò comporta che non possono essere considerate quali denunce le dichiarazioni dei lavoratori acquisite in sede ispettiva, a meno che le stesse non vengano formalizzate con alcune particolari modalità. Infatti deve essere fatta denuncia formale del lavoratore (possibilmente da redigere sul mod. Vig.1) diretta ad informare l’Istituto Previdenziale dell’esistenza di una omissione contributiva, parziale o totale. Tale denuncia formale può essere sottoscritta dal lavoratore anche durante lo svolgimento dell’ispezione a seguito dei chiarimenti forniti al dipendente dall’Ispettore di vigilanza.

Il regime sanzionatorio

L’art. 116, comma 8 e seguenti, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, ha delineato un nuovo regime sanzionatorio per i casi di omesso o ritardato pagamento dei contributi. L’INPS, nel descrivere l’applicazione di tale nuovo sistema, ha emesso la circolare n. 110/2001. In particolare, si configura l’ipotesi dell’evasione, perseguita dal legislatore con maggiore severità, nel caso in cui l’inadempienza nel versamento dei contributi sia connessa a registrazioni o denunce obbligatorie omesse o non conformi al vero, cioè nel caso in cui il datore di lavoro, con l’intenzione specifica di non versare i contributi o premi, occulta rapporti di lavoro in essere ovvero le retribuzioni erogate. Tra le più frequenti irregolarità che concretizzano l’ipotesi dell’evasione come sopra configurata, l’INPS segnala nella citata circolare n. 110/2001: la mancata iscrizione della azienda all’Ente previdenziale; la mancata iscrizione sui libri aziendali di uno o più dipendenti; l’infedele registrazione delle retribuzioni; oltre, ovviamente, alla mancata denuncia di specifiche partite; l’omessa o tardiva presentazione delle denunce obbligatorie e la loro infedeltà. Per quanto concerne le collaborazioni coordinate e continuative, la circolare n. 110/2001 dell’INPS affermava che - per quanto attiene all’ipotesi di "simulazione del rapporto di lavoro subordinato" - fattispecie che si ritiene possa configurarsi nei casi di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa o di rapporti di lavoro dichiarati di natura autonoma, successivamente individuati come subordinati - il Ministero del lavoro e della previdenza sociale - con circolare n. 12 del 22 gennaio 2001, aveva spiegato che "al fine di consentire agli Istituti previdenziali di procedere al recupero dei contributi …", ha configurato tale ipotesi come evasione. A distanza di tempo, però, l’INPS è ritornata sulla questione decidendo che il rapporto di lavoro simulato non viene più sanzionato come evasione bensì come omissione contributiva. Questo vuol dire che in sede di verifica ispettiva non sono applicate le sanzioni del 30% ma quelle più favorevoli che prevedono l’applicazione della sanzione civile del Tur maggiorato del 5,5%.
Il cambiamento di rotta è stato illustrato con la circolare INPS n. 74/2003. In precedenza, come sopra accennato, si era arrivati alla conclusione che alla simulazione del rapporto di lavoro subordinato bisognava applicare l’art. 116, comma 8, lett. b)della legge n. 388/2000, in quanto considerata evasione contributiva. Le aziende hanno contestato la configurazione di evasione contributiva in sede amministrativa e giudiziaria, con negativi riflessi sui tempi di recupero dei contributi accertati a causa dell’enorme contenzioso. L’INPS ha illustrato le motivazioni che hanno indotto a rivedere tale orientamento e spiega che l’intento del legislatore è stato quello di accentuare l’effetto punitivo nei confronti di fenomeni a maggiore pericolosità sociale, avendo a riferimento la classica evasione contributiva, quale l’utilizzo intenzionale di lavoratori in nero o l’erogazione di emolumenti volutamente non assoggettati a prelievo. La simulazione del rapporto, invece, prevede in ogni caso una serie di denunce e registrazioni obbligatorie delle quali l’Istituto è a conoscenza attraverso la riscossione dei contributi che l’azienda versa oltreché attraverso le ispezioni. La presenza di queste denunce e dei pagamenti, continua l’Istituto, non consente di affermare con certezza di essere in presenza di un rapporto simulato basato sulla intenzionalità. Del resto, continua la circolare n. 132/2004 in commento, anche le nuove forme contrattuali, introdotte dalla legge n. 30 del 2003, possono assumere caratteristiche diverse da quelle proprie del rapporto di lavoro subordinato.
È solo il concreto atteggiarsi della prestazione, spesso indipendente dalla volontà delle parti, o quanto meno da quella espressa all’origine, che può far propendere per una accentuazione del vincolo della subordinazione e quindi indurre gli organi di vigilanza alla trasformazione del rapporto.

Ricorsi ai Comitati regionali del lavoro

I ricorsi avverso i verbali ispettivi aventi ad oggetto la qualificazione e la sussistenza dei rapporti di lavoro sono attribuiti alla competenza dei Comitati regionali del lavoro, organi di nuova istituzione, composti dal Direttore regionale del lavoro, che lo presiede, e dai Direttori regionali dell’INPS e dell’INAIL.
Il ricorso può essere proposto avverso contestazioni o notificazioni di illecito amministrativo delle Direzioni provinciali del lavoro (Dpl), ordinanze-ingiunzioni delle Dpl, verbali di accertamento di INPS, INAIL e altri enti previdenziali. Quest’ultimo passaggio conferma che anche gli ispettori degli enti previdenziali possono entrare nel merito dei rapporti di lavoro ai fini del calcolo dei contributi dovuti.
I ricorsi vanno decisi entro novanta giorni dalla loro presentazione, decorsi i quali devono intendersi respinti. Al riguardo, la circolare ministeriale fissa un termine per la presentazione del ricorso (30 giorni dalla notifica della contestazione).
Relativamente ai ricorsi presentati fino alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 124/2004 (27 maggio 2004) - come già indicato nel messaggio INPS n. 20291 del 25 giugno 2004 - questi restano attribuiti alla competenza dei Comitati regionali dell’Istituto.

I poteri attribuiti agli Ispettori di vigilanza
I poteri degli Ispettori INPS (circolare n. 51047/1986)

Potere di ispezione e di accesso
Per l’accertamento delle violazioni di competenza dell’INPS, gli Ispettori possono procedere all’ispezione di cose e luoghi diversi dalla privata dimora, in base a quanto stabilisce il citato art. 13 della legge 689/1981.

Potere di contestazione
Il potere di contestazione consiste, ai sensi dell’art. 14 della legge n. 689/1981, nella comunicazione della commessa infrazione al trasgressore da parte dell’Ispettore che ha proceduto all’accertamento.

Potere di accertamento
Il potere di accertamento consiste nell’attività di osservazione, di ricerca di notizie anche attraverso l’acquisizione di dichiarazioni e prove per verificare l’esistenza dei presupposti del rapporto assicurativo, dell’obbligazione contributiva e delle prestazioni, nonché per verificare il regolare svolgimento del procedimento amministrativo di riscossione dei contributi anche nei suoi aspetti formali (adempimenti del datore di lavoro e/o del lavoratore).

Potere di sequestro
L’art. 13, comma 2, della legge n. 689/1981 stabilisce che gli organi addetti al controllo possono altresì procedere al sequestro cautelare delle cose che possono formare oggetto di confisca amministrativa, nei modi e con i limiti con cui il codice di procedura penale consente il sequestro alla polizia giudiziaria.

L’inquadramento aziendale nelle sentenze della Cassazione

Fra le sentenze della Cassazione, la n. 4954/2002 si è pronunciata sulla questione stabilendo che in tema di classificazione di una impresa ai fini previdenziali, ove l’attività dell’imprenditore abbia carattere promiscuo occorre tener conto, in relazione alle finalità economiche perseguite, dell’attività primaria svolta dall’impresa rispetto alla quale le altre risultino secondarie, ponendosi in rapporto di mera complementarietà, a meno che l’imprenditore eserciti una pluralità di attività con organizzazioni autonome e distinte tra loro non reciprocamente condizionate e riconducibili ad aziende separate, nel qual caso per ciascuna di esse deve valere la corrispondente qualificazione di azienda industriale o commerciale.
In materia di variazione del precedente inquadramento aziendale la Corte di Cassazione, con sentenza n. 10459/2002, afferma che in "tema di classificazione delle imprese ai fini contributi, secondo la disciplina di cui agli art. 49 e 50 della legge n. 88/1989, deve ritenersi ammissibile l’azione di accertamento proposta dall’imprenditore a seguito del provvedimento dell’INPS di variazione del precedente inquadramento, a nulla rilevando che l’ente previdenziale non abbia ancora avanzato specifiche pretese contributive in conseguenza della nuova classificazione; la finalità della indicata disciplina, infatti, è quella di consentire all’impresa di poter eliminare un’obiettiva incertezza circa l’atteggiarsi del rapporto giuridico previdenziale, nonché, conseguentemente, circa l’esatta portata dei diritti e degli obblighi da esso scaturenti, dovendosi presumere che da tale stato di incertezza derivi alla stessa impresa il pericolo attuale di un pregiudizio".



Validità dell’atto interruttivo

L’atto interruttivo della prescrizione, per essere valido, deve contenere sempre la quantificazione del credito, o l’indicazione di tutti gli elementi che consentano al debitore di pervenire alla sua quantificazione. La decorrenza dei termini di prescrizione presuppone che il debitore abbia messo in grado l’Istituto di conoscere l’entità del debito contributivo (circolare n. 55/2000). Pertanto, nell’ipotesi in cui ciò non avvenga, e l’Istituto non abbia avuto la possibilità di rilevarlo, la prescrizione non può decorrere poiché l’Istituto stesso si trova nella impossibilità di esercitare il proprio diritto di credito. A titolo di esempio: datori di lavoro che abbiano dolosamente occultato l’utilizzo di lavoratori dipendenti nella propria attività avendo evitato di iscriversi negli appositi albi e non essendosi muniti di libri paga e matricola; oppure artigiani o commercianti che abbiano denunciato al fisco parzialmente il proprio reddito d’impresa, o non lo abbiano denunciato affatto.

A cura di Temistocle Bussino (Funzionario ispettivo INPS)

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