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Divieto di licenziamento con causale COVID e i rischi connessi all'eventuale recesso

Il divieto dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo viene previsto come "innovativo" strumento finalizzato a limitare i potenziali effetti negativi dell'emergenza sanitaria sul piano occupazionale.

La disposizione nasce come "divieto assoluto" per un intervallo temporale prefissato che nella prima formulazione legislativa del D.L. 18/2020, è di 2 mesi, prorogato con la stessa ratio dal D.L. 34/2020 pe ulteriori 3 mesi.

Con il D.L. 104/2020 il Legislatore rinnova l'apparato normativo sul divieto in questione che diviene “condizionato”, quindi non più un obbligo assoluto e imprescindibile (sono di fatti introdotte delle deroghe) e soprattutto non più legato ad un termine fisso ma legato al completo utilizzo degli strumenti sussidiari alla sospensione delle prestazioni lavorative (cassa covid, congedo covid, ecc). 

Quest'ultima formulazione ha però di fatto aperto a non poche problematiche di tipo operativo che, di conseguenza, sanciscono un necessario ritorno ad un termine fisso con la proroga prima al 31 gennaio 2021 ( D.L. 137/2020) e ancora al 31 marzo 2021 (Legge 178/2020).

Ma, oltre quelli strettamente applicativi, la reale problematica insita in questo nuovo strumento riguarda i rischi connessi ai licenziamenti intimati durante il periodo di vigenza del divieto.

Rischi che lo scrivente rinviene sotto due profili strettamente collegati, quello della nullità della risoluzione del rapporto e quello della efficacia degli accordi transattivi sottoscritti dalle Parti a seguito del licenziamento in questione comunque operato.

Per quanto attiene la nullità la disamina verte sul contenuto stretto della circostanza che da luogo ad  un "comportamento privo di efficacia". Sembrerebbe proprio questa l'accezione che il Legislatore voglia dare al "divieto" di licenziare, ovvero di "indisponibilità" a un diverso comportamento (eccetto che per le deroghe espressamente previste), ovvero di un divieto assoluto nel procedere al recesso, indipendentemente che le motivazioni legittimanti vi siano o meno.

Da questa interpretazione prende spunto la prima criticità in esame, ovvero che l'eventuale licenziamento per GMO in costanza di divieto abbia accezione di "indisponibilità" nella procedibilità; quindi non perché mancano i motivi che lo renderebbero legittimo, piuttosto perché "la norma non lo permette". 

E' un aspetto di non poca importanza in quanto apre scenari assai incontrollabili sull'eventuale impugnabilità dei licenziamenti in oggetto. Di fatti, se confermata questa interpretazione, sui termini di impugnabilità potrebbero non essere considerabili quelli "restrittivi" dei 60 gg di cui alla L. 183/2010 (Collegato Lavoro); piuttosto si aprirebbe la strada all'applicazione dei termini di decadenza di cui all'art. 1422 c.c. secondo cui l'azione per far dichiarare la nullità non è soggetta a prescrizione.

Immaginiamo cosa significa ciò. Se il concetto di nullità è così interpretabile, in tale circostanza, oltre che nei casi di mancanza di requisiti essenziali, il licenziamento sarebbe nullo anche quando viola una norma imperativa della legge. 

Da questa riflessione ne scaturisce una strettamente correlata che riguarda i tanti recessi intervenuti finora, molti dei quali ascritti in procedure conciliative con accordi transattivi dove è stata sottoscritto il patto di "non impugnabilità" tra le Parti. In tal caso, per quanto sopra argomentato, probabilmente il patto non avrebbe alcuna efficacia per lo stesso motivo, ovvero perchè "la norma non lo permette".

Naturalmente quanto riportato nell'articolo è frutto solo di un'interpretazione dello scrivente. Quanto all'effettiva interpretazione attenderemo l'evoluzione giurisprudenziale in materia.




Articolo di Bruno Olivieri
(Consulente del Lavoro in Pescara)

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